Città, cosa mi offri di bello?
/La città è una porzione di territorio ad alta antropizzazione che affronta costantemente le sfide legate alla qualità della vita e alla ricerca di un equilibrio estetico che rispetti e si integri armoniosamente con l’ambiente naturale in cui si inserisce, a volte gradualmente, altre bruscamente.
La città vive quindi una perenne tensione verso un’ideale di bellezza, che si esprimerebbe in un alto livello di benessere e di vivibilità dei suoi abitanti, tensione che però rivela criticità sempre maggiori nel tempo, fino ad arrivare ad un’allarmante lettura dei dati medico-scientifici attuali. Gli ambienti urbani degli ultimi decenni infatti registrano un’incidenza di psicopatie molto più alta rispetto a quella negli ambienti rurali, per un fenomeno attribuibile alla dissonanza tra gli stimoli ricevuti e le aspettative biologiche umane.
Lo spazio urbano costituisce lo spazio esterno (outdoor) di riferimento per il cittadino che ci vive. Se è vero che trascorriamo il 90% della nostra giornata nei luoghi chiusi (indoor), la città rappresenterebbe la nostra grande occasione di rigenerazione, il luogo dove poter fare una pausa dal turbinio della vita di ogni giorno (quel 10% del tempo rimasto), dove poter rinvigorire spirito e corpo e fare rifornimento della giusta dose di serenità quotidiana.
Quando i temi messi sul tavolo di discussione dei pianificatori sfiorano la questione centrale del benessere psicofisico del cittadino, o il livello di soddisfazione per la qualità della vita offerta, il dibattito diventa difficile, fino a risultare sterile. E questo avviene sia perché le sfere individuali sono difficili da indagare, sia perché concetti quali la bellezza e la felicità risultano inafferrabili.
Se ci spostiamo ad un altro tavolo di lavoro, quello degli psicologi, gli stessi che ci mettono in allerta sulla condizione psicofisica della popolazione, il dibattito diventa più ricco e le soluzioni offerte non mancano.
Il filone di psicologia positiva, attualmente quello più convincente, cerca di infondere un generale atteggiamento ottimista, che ci rende potenzialmente tutti capaci di miglioramento e di raggiungimento di un adeguato livello di soddisfazione della propria vita. La spinta motivante è certamente fondamentale, dicono, ma anche un contesto che alimenti la positività, attraverso la promozione della bellezza e del benessere relazionale, può essere di grande aiuto. Il contesto spaziale e sociale è importante, anzi fondamentale, perché contiene quegli elementi di supporto e di appiglio necessari per la resilienza e per superare le negatività che si presentano inesorabilmente nella vita. La bellezza (e la felicità annessa) non è quindi solo un concetto astratto e fuori di noi, ma un’armonia di stimoli sensoriali positivi, oltre che di valori etici quali la giustizia, l’equità, la libertà.
L’arte, quella che ufficialmente si considera tale, in città si manifesta esplicitamente tramite opere artistiche e scultoree esposte al pubblico, che si tratti di installazioni statiche o interattive. Ma esistono altre modalità in cui l’arte ed il bello si rivelano alle persone, anche se in maniera meno consapevole. La facciata di un edificio, il pattern di una pavimentazione, il design di una panchina, sono tutti elementi che segnano un’esperienza estetica che può essere molto forte, specialmente quando si propongono in modo costante e ripetitivo nella quotidianità del cittadino.
I pionieri della neuro-estetica hanno spiegato bene quello che alcuni pittori avevano già intuito all’inizio del ventesimo secolo, e cioè che rispondiamo in modo diverso a livello cognitivo ed emotivo a determinate caratteristiche geometriche e materiche, che riguardino sia un oggetto piccolo che arreda la nostra casa sia un elemento della scala grande, quale la facciata di un edificio.
La neuro-estetica è in grado di distinguere e spiegare le diverse reazioni che si innescano al primo impatto visivo (linee, curve, colori), che riguardano poi l’aspetto che può essere ben controllato nella fase iniziale di progettazione.
La biofilia, l’ipotesi secondo cui l’essere umano si sente affiliato e attratto a tutto ciò che riguarda le espressioni della natura, trova il suo fondamento nelle evidenze scientifiche che questo campo scientifico ha prodotto. La piacevolezza che esperiamo durante la contemplazione dell’ambiente naturale si spiega attraverso l’equilibrio che si ragiunge tra la semplicità, l’immediatezza della lettura, ed il moderato livello di stimolazione della nostra attenzione.
In natura i componenti con bassa frequenza spaziale presentano un contrasto elevato mentre i componenti con alta frequenza hanno un contrasto più basso (rispettivamente la parte bassa e alta degli alberi in foto). In città le architetture infrangono questa regola della natura: tendono a presentare schemi regolari e ripetitivi, che risultano a volte stressanti alla vista (sequenze dei piani nel grattacielo in foto).
Vale la pena fare un piccolo preambolo e sapere, a tal proposito, che la nostra area cerebrale destinata al riconoscimento dei paesaggi complessi, come quelli urbani oltre che del territorio, risulti essere molto vicina a quella deputata al riconoscimento dei volti.
La fisiognomica, studiata approfonditamente da Lavater alla fine del 1700, valutava il modo in cui i tratti stabili dei volti delle persone influenzassero il giudizio nei loro confronti. Ad essa poi si è contrapposta la patognomica che, invece di considerare i tratti stabili del volto, che conducevano ad un approccio pregiudizievole e bigotto nei confronti delle persone, prendeva in considerazione l'intenzionalità delle espressioni per le emozioni del momento. Per quanto la mancanza di una base empirica solida a supporto portasse a considerare questa area di ricerca pseudoscienza, tuttavia è interessante notare come alcuni studi in psicologia e neuroscienze si siano poi ispirati a tali teorie, e abbiano poi verificato che gli esseri umani abbiano una tendenza innata a fare inferenze rapide (anche se non necessariamente accurate) sull’aspetto umano. La pareidòlia, per esempio, si manifesta quando associamo determinate architetture, o anche casuali espressioni della natura, ai volti umani, e porta a giudicare alcuni tratti casuali con una emotività non prevista, che condiziona il giudizio estetico. E’ possibile sorvolare su tale condizionamento, ma è indubbio che ci sia una tendenza inconscia ad attribuire del simbolismo ai segni del paesaggio circostante, e a volte anche ai segni astratti che ci vengono proposti.
L’esempio dell’immagine in alto (1) mette a confronto segni astratti ed isolati che danno una risposta emotiva molto differenziata. La prima figura (linea diritta) si associa all’idea di noioso e statico, la linea curva si aggancia ad una idea di calma e comfort, mentre l’ultimo segno spezzato si associa generalmente al concetto di aggressività e confusione. Potreste trovare il risultato banale, ma spesso la città offre esperienze visive forti oppure squallide e tristi nella più totale indifferenza rispetto alla prevedibilità dell’effetto in fase progettuale.
Gli antichi dedicavano molta cura all’aspetto estetico di un edificio e delle strade, e ci impiegavano molto tempo nella loro realizzazione, tempo che giocava a loro favore perché permetteva una accorta trasposizione di valori da parte di chi le realizzava (progettisti e artigiani), una comunicazione diretta, che non subiva tagli né interferenze delle diverse professionalità che invece sono coinvolte oggi. In poche parole le città erano coscienti della loro essenza, erano composte, garbate e discrete.
Oggi la vita è più frenetica in un sistema globalmente più entropico e stressato, per cui la stimolazione eccessiva o distorta, anche solo visiva, che abbiamo visto prima derivare dal caos dei segni e anche dalla monotonia delle ripetizioni all’infinito, diventa un fattore da tenere sotto controllo. L’invito a rallentare il passo e ad addolcire il linguaggio non è accettato immediatamente da tutti per un’atavica resistenza al cambiamento, ma anche perché si viene da una tradizione di lungo periodo che ha elogiato l’architettura del sublime, quella dirompente e rappresentativa, che ci aveva educato a percepire il ranking dei palazzi e distinguere gli edifici del potere e militare dagli altri.
La diffusione dei software di progettazione digitale, che afferma una nuova corrente, la cosiddetta architettura parametrica (legata ad algoritmi capaci di proliferare in modo indipendente) potrebbe rappresentare la soluzione per materializzare e risolvere la complessità del mondo contemporaneo e il cambio ideologico.
Se è vero che la progettazione e costruzione tradizionale richiede(va) uno sviluppo lento per favorire una crescita coerente e organica, allora è venuto il momento di affidarsi a questo strumento progettuale, che potrebbe aiutare a risolvere la falsa dicotomia che oppone due fenomeni apparentemente in conflitto: da un alto il timore che l’intelligenza artificiale possa soppiantare l’umano e, dall’altro, l’umano che lamenta una incapacità di stare al passo con lo sviluppo veloce dei tempi.
In questo caso il ruolo fondamentale del progettista non viene negato, ma rimane e persiste per la responsabilità del controllo dei risultati dei nuovi strumenti di elaborazione.
Credo che uno dei gruppi di progettazione più all’avanguardia del momento, il gruppo MVRDV, esprima l’intenzione di mettere in pratica un nuovo approccio in questa realizzazione inaugurata nel 2022 ad Amsterdam. Per uno spunto di riflessione su quanto detto riporto di seguito alcune foto e la descrizione sel progetto fatta dagli stessi autori.
“Valley Towers è un tentativo di riportare una dimensione verde e umana nell'ambiente inospitale degli uffici di Amsterdam Zuidas. È un edificio dai molteplici volti; sui bordi esterni dell'edificio si trova un guscio di vetro liscio a specchio, che si adatta al contesto del quartiere degli affari. All'interno di questo guscio, l'edificio ha un aspetto naturale completamente diverso e più invitante, come se il blocco di vetro si fosse sgretolato per rivelare pareti rocciose scoscese all'interno piene di pietra naturale e vegetazione”.
Gran parte dell'edificio è aperto al pubblico ed i materiali utilizzati per le diverse superfici, verticali e orizzontali, hanno cura di esprimere una conformazione fortemente geologica dell’idea di partenza.
Alain the Botton, nel suo libro “Architecture of Happiness”, ci definisce vulnerabili a quello che abbiamo di fronte, e questa vulnerabilità può essere tanto più forte quanto minore è la consapevolezza di questa continua comunicazione che avviene tra i segni dello spazio costruito e gli utenti che ci abitano.
L’esperienza puramente estetica, finora considerata, non è che un frammento di una interazione molto complessa che non solo considera l’esperienza multisensoriale ma anche le diverse dinamiche psico-comportamentali.
Nei prossimi articoli cercheremo di analizzare anche questi altri aspetti.
(1) immagine tratta dal libro “Architecture of Happiness”, Alain the Botton, Penguin Book, 2006