La rinnovata consapevolezza di essere rilevatori di cielo

L’evidenza scientifica ha in più occasioni  provato l’importanza che le passegiate all’aria aperta ed i bagni di luce naturale hanno per la rigenerazione psicofisica nella routine lavorativa e scolastica, e numerosi sono gli articoli prodotti sul tema.

Ragazzo, cielo e mare . Foto by N. De Pisapia

Ragazzo, cielo e mare . Foto by N. De Pisapia

Eppure adesso capita che sia proprio una emergenza sanitaria, questa del Coronavirus, ad interrompere un’ abitudine fondamentale per il nostro benessere, e a costringerci a rimanere, a tempo indeterminato, dentro le mura domestiche. Succede così che ciò che prima sembrava quasi un’imposizione, una prescrizione del medico, ora si trasforma in istinto personale  che è difficile domare.

E’ una rinnovata consapevolezza del nostro essere profondamente affiliati alla natura, che ritengo essere uno degli effetti positivi di questa emergenza Coronavirus. Ma cosa scatena il nostro istinto a uscire fuori degli ambienti confinati? E cosa accade al nostro organismo quando ci troviamo all’aperto?

L’uomo è soprattutto un rilevatore di luce blu, il che significa che una dose di luce ben definita, per quantità, qualità, direzione, e tempismo, risponde a precise esigenze neurofisiologiche, e sopra tutte quella di mantenere in carica il nostro orologio biologico. La parola entrainment, usata più in cronobiologia, indica l’effetto che, attraverso gli occhi, lo stimolo luminoso sortisce sul nostro sistema-corpo, per renderlo allineato con l’ambiente circostante e quindi coordinare il ritmo circadiano. In tedesco si usa il termine  zeitgebers , cioè “che dà il tempo”, ed in italiano possiamo tradurla con sincronizzazione.  

Salaattesa all’aeroporto . Foto di N. De Pisapia

Salaattesa all’aeroporto . Foto di N. De Pisapia

Quando effettuiamo voli transoceanici, quelli che ci permettono di assistere ai  tramonti o albe interminabili, il nostro orologio si guasta, o meglio si sposta in avanti o indietro, a seconda della situazione.  Conosciamo l’effetto devastante di un jet-lag, ma non ci rendiamo conto di quanto a volte anche situazioni meno drastiche, più lente e perpetuate possano essere logoranti. Gli effetti negativi sono meno avvertiti quando trascorriamo molto tempo diurno in ambienti scarsamente illuminati, oppure quando ci esponiamo a forti luminosità nelle ore serali. Il nostro corpo si adatta, ma a quale costo?

Il ritmo circadiano, l’ingranaggio principale che regola il ciclo veglia-sonno, è concatenato a sua volta con altri sub-ingranaggi quali la digestione, la produzione ormonale, la pressione sanguigna, la temperatura corporea, ecc.. Questi sono tutti ritmi endogeni, cioè avvengono comunque e indipendentemente dai segnali esterni sincronizzanti, ma se lo sfasamento si perpetua nel tempo succede che inizialmente la stanchezza, poi la depressione e poi le sindromi legate a patologie vere e proprie si manifestino in modo inesorabile e devastante.

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 La luce è il segnale più importante ed efficace che abbiamo, anche se non l’unico. La regolamentazione dei pasti, un’adeguata attività fisica sono altri importanti fattori comportamentali che assicurano il buon funzionamento dell’organismo. Rimane il fatto che il nostro fisico reagisce come una cartina al tornasole, cioè risulta evidentemente resettato/ricaricato da una passeggiata all’aperto in pieno giorno. I fotorecettori dell’occhio, non a caso quelli collocati nella parte bassa, in determinate ore del giorno sono sensibili alla cupola di cielo sovrastante, e, sembra strano, lo sono anche quando il tempo è uggioso. Spaventati ulteriormente da questa quarantena? Non è il caso di esserlo, tanto basta che alloggiate nei punti più luminosi della casa, oppure che vi affacciate alle finestre per quel tempo minimo e sufficiente a farvi sentire più energetici e ricaricati.

Chi ha paura del buio?

C'è un grande bisogno di spazi antropizzati che ci confortino, ci regalino opportunità di riflessione e introspezione. Le città esistono da diversi millenni ed hanno sempre rappresentato, pur nella loro semplice organizzazione, realtà fisiche che costruiscono e confermano la nostra identità spirituale, sociale e culturale. Eppure negli ultimi decenni i centri urbani si stanno trasformando in meri sistemi di collegamento tra residenze, attività e servizi, in cui si innescano silenziosi dei fattori stressanti che cronicizzano e si trasformano in nevrosi e schizofrenie

Budapest al crepuscolo . Foto di Giulia Ascione

Budapest al crepuscolo . Foto di Giulia Ascione

I percorsi urbani sono efficaci nel forgiare la nostra esperienza quotidiana e di vita perché avvengono con una sistemicità e costanza maggiori rispetto alle più rigeneranti ma sporadiche esperienze naturalistiche.   L’ipotesi biofilica ci spiega quanto benefico e quindi necessario sia arricchire il paesaggio urbano con elementi naturali, quali l’acqua e il verde, ma poco si parla di quanto sia pericoloso privare l’uomo di una esperienza fondamentale per il suo metabolismo e sistema fisiologico: il buio.

Il buio è diventato il capro espiatorio del fenomeno di degrado di molte aree urbane, poiché le zone scarsamente illuminate registrano una più alta percezione del rischio e un conseguente fenomeno di desertificazione e quindi di degrado. La illuminazione notturna è diventata una discriminante per la qualità di vita di un quartiere: più le zone sono illuminate più sono invitanti e maggiore è il successo garantito per le attività commerciali. Il bagliore delle aree metropolitane di oggi produce una luce diffusa su scala territoriale di 4 lux, che equivale a 4 volte il bagliore generato dalla luna piena e oltre 100 volte l’illuminazione del cielo stellato. Una condizione luminosa che stravolge quelle che sarebbero le condizioni naturali e che ha un forte impatto sulla nostra psiche e sul nostro fisico.

Il nostro sistema visivo è stato programmato per una visione fotopica (diurna), ma anche per una visione scotopica (notturna). L’occhio umano presenta sul fondo della retina due tipi di fotorecettori distinti per queste due modalità percettive. I coni ci restituiscono i colori, le forme, i dettagli della vista centrale, mentre i bastoncelli ci aiutano a cogliere il movimento e la vista periferica, e percepire la realtà circostante in condizione di scarsa illuminazione, quale può essere quella offerta dal cielo notturno.

Ma la vita offre ancora esperienza del buio? O questa è un’altra condizione naturale importante che ci viene negata? Ritornando a quanto detto all’inizio, cioè al nostro bisogno di ricevere conforto dall’ambiente in cui viviamo, c’è da dire che il concetto di oscurità è strettamente legato all’esperienza del silenzio, del vago e quindi della tranquillità.

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Do we need a little more darkness to challenge ourselves to adapt, and perceive more?

 (trad.: “Abbiamo bisogno di maggiore oscurità per adattarci a essa e percepire di più ?”) E’ una domanda che la lighting designer C. Tomara pone in un suo articolo sull’evento PLDC2019, in particolare per l’installazione della Dark Art Room. L’autrice intende sottolineare quanto sia meravigliosa e nel contempo sconosciuta la nostra capacità visiva di adattarsi al buio. La sua riflessione mi ha rimandanto a una diversa e personale considerazione, basata su una esperienza di qualche tempo fa, quando mi sono ritrovata a percorrere una strada della mia città di origine, completamente al buio a causa di un blackout temporaneo. In quel momento ho avvertito forte l’invito a proseguire il cammino nonostante il buio mi cogliesse impreparata, la sensazione di incertezza e titubanza si è subito trasformata in un forte impulso a investigare questa insolita condizione (nuova, o solamente dimenticata). La familiarità della strada ha sicuramente contribuito ad eliminare ogni indugio a percorrerla, dissipando la percezione del pericolo, e aiutandomi a godere, invece, della sensazione positiva di quiete. Ho avvertito forte il contatto con la natura e la positività di una esperienza rincuorante, nonostante fossi immersa in volumetrie di cemento, sentissi l'asfalto sotto i piedi e mi sfiorassero le automobili. 

Una sensazione molto simile l’ho provata, già adulta, quando ho avuto la mia prima esperienza con la nebbia. L’impossibilità di percepire i dettagli delle forme degli oggetti e l’essere pervasa da una luce diffusa che non restituisce alcuna profondità del campo visivo, estranea dal mondo esterno e induce ad un dialogo con se stessi.

STrade nella nebbia

STrade nella nebbia

La scienza può dare delle spiegazioni a questo fenomeno di empatia. Durante la fase preliminare all’addormentamento, o anche quella del sogno ad occhi aperti, l'elettroencefalografia (EEG), che registra l'attività elettrica dell'encefalo, rileva un’accentuata attività delle onde alfa in concomitanza con un certo torpore visivo. Quindi possiamo assumere che, viceversa, creando il torpore nella visione si possano innescare stati mentali pseudo onirici. La spiegazione potrebbe essere nel fatto che una scarsa restituzione dei dettagli, delle sagome e del contrasto, che una luce diffusa su tutto il nostro campo visivo determina, ci porta in una dimensione che non aderisce alla realtà come normalmente la percepiamo, perché non è tipica dell’esperienza quotidiana. L’esperienza visiva nella nebbia diurna non è né la visione scotopica - perché non si tratta di buio - né consente la visione centrale, capace di restituire i dettagli ed i colori delle cose. Tutto viene quindi sfumato in una dimensione atemporale e aspaziale che induce inevitabilmente ad una meditativa introspezione, ancora più di quanto possa fare il buio.

La differenza tra l’esperienza al buio e con la nebbia sta nel fatto che nel primo caso si può contare su minimi riferimenti dello spazio: un’illuminazione di soli 0,006 Lux, che è quella tipica della notte con cielo stellato, ci permette, attraverso la lenta ma efficace attivazione dei bastoncelli, di percepire le sagome, i contorni, i movimenti e quindi leggere e decodificare la cinematica corporea delle persone intorno e tradurle in intenzioni e in emozioni. Il nostro essere animali sociali ci predispone all’interpretazione dei set visivi, in una sorta di elaborazione simultanea dei rilevatori di caratteristiche (elementi oggettivi della scena visiva) e della corteccia visiva associativa che combina la scena ai ricordi e alle conoscenze.

La illuminazione urbana, alla luce delle conoscenze psicofisiologiche, deve saper promuovere l’uso positivo dell’oscurità come strumento progettuale e cogliere l’opportunità di saper gestire i messaggi reali e mediarli con quelli indotti e sussurrati per restituire un set visivo quanto più rassicurante possibile, e trasformare l’esperienza dell’oscurità da unicamente minacciosa a una positiva occasione di rilassante dialogo con se stessi.

Non dobbiamo avere paura del buio e non solo perché ne abbiamo bisogno per addormentarci e continuamente allineare il nostro ritmo circadiano, ma anche perché disponiamo degli strumenti adatti per relazionarci con esso. Abbiamo bisogno del buio per non lasciare che parti del nostro corpo si atrofizzino e soprattutto per scrutare molto di più fuori e dentro di noi.

"Affordance" in architettura

Affordance significa invito

Esiste una forte analogia tra il design degli oggetti ed il design degli spazi, nonostante spesso i due campi di applicazione sembrano appartenere a due modi molto distanti tra loro, a causa di dinamiche economiche e di mercato molto diversi.

Affaccio sul golfo, Certosa San MArtino- NApoli . foto n. de pisapia

Affaccio sul golfo, Certosa San MArtino- NApoli . foto n. de pisapia

 Tale analogia si evidenzia attraverso il concetto di affordance..

Affordance significa invito, cioè  la capacità di capire la relazione che c'è tra l'utente e l'oggetto, nel caso del design del prodotto, oppure tra l'utente e lo spazio, nel caso del design dello spazio.

Nonostante il termine sia diffuso soprattutto nell’ambito del design industriale, il concetto si forma e si sviluppa in considerazione del rapporto tra gli esseri viventi e la natura. Un ciglio di una roccia che si sporge su uno strapiombo ha una sua specifica affordance per noi esseri umani: essa ci comunica di stare attenti e di fermarci, e di assumere determinante posture che non ci mettano a rischio di vita. Per un uccello lo stesso luogo può essere un invito a spiccare il volo per perlustrare la vallata che è oltre.

Il concetto di affordance è costantemente applicato allo spazio costruito in scala architettonica, ma non in modo pienamente consapevole. Esso si applica in modo automatico, attraverso il  perpetrarsi di tipologie validate e confermate nel tempo, a volte con profonda cognizione dei significati insiti,  altre volte (e questo è più il caso degli ultimi decenni) imposte dalle regole di mercato e di tendenze che poco hanno a che fare con le considerazioni sull’effettiva efficacia che i vari fattori spaziali possano avere per la nostra esperienza legata al luogo.  Spesso viene a mancare la consapevolezza del profondo legame che unisce lo spazio alla sua destinazione di uso, la metodologia progettuale rivela tale importante omissione con lo scarso successo dello spazio stesso, in termini di qualità di esperienza di vita e quindi anche di qualità estetica.

Eppure prima che i recenti sistemi di indagine e monitoraggio delle nostre reazioni cerebrali fossero disponibili,  grandi architetti del movimento moderno hanno approfondito queste tematiche e hanno avuto geniali intuizioni. Un esempio sono gli interni di Fallingwater, con i corridoi molto stretti e bassi che collegano le camere della zona notte, le cui dimensioni ridotte rispetto al resto della casa non possono lasciare indifferenti. Tale scelta è il  risultato di un profonda riflessione sulle sensazioni effimere ma profonde che caratterizzano il movimento nel luogo domestico e quindi il modo di percepire e vivere lo stesso, al di là delle considerazioni strettamente fisiche legate all’accessibilità (importantissime ma non le uniche a decretare la buona funzionalità).

ingresso LAtrina a 45 gradi in villa San MArco di Stabia .NA. foto G. Ascione

ingresso LAtrina a 45 gradi in villa San MArco di Stabia .NA. foto G. Ascione

E’ probabile che tale approccio abbia avuto a sua volta influenze dall’architettura greco-romana, nelle scelte progettuali adottate nelle ville fuori città (Villa San Marco di Castellammare di Stabia –nella foto), le quali adottano schemi più liberi, planimetrie e volumetrie fluide a risolvere e rispondere a esigenze molto particolari e più sofisticate. Anche qui infatti si ricorre a dilatazioni e restringimenti dei volumi, geometrie innovative, che rompono con le tendenze e le regole dell’epoca, e sembrano soddisfare egregiamente le aspettative di chi le vive, inviando messaggi sulle azioni da svolgere e sugli stati mentali propedeutici a tali azioni.

Quali indagini affronterebbero gli architetti del passato recente e trapassato se fossero attivi oggi ? Come accoglierebbero la disponibilità di strumenti scientifici capaci di misurare le reazioni psicologiche ed emozionali degli utenti di uno spazio progettato?  Quanti nuovi significati avrebbero creato e validato?

Il concetto di affordance rappresenta un valido strumento per giocare con gli spazi e creare esperienze del luogo molto ricche, perché i suggerimenti e gli inviti a compiere determinati gesti e azioni possono essere reali, ingannevoli, ambigui. L’importante è sapere usare bene il linguaggio spaziale per riuscire in ogni singolo scopo, premesso che la scelta degli scopi sia opportuna, rispettosa del benessere di chi dovrà occupare lo spazio e fatta  in piena libertà rispetto alle tendenze stilistiche e tecnologiche.

La distinzione tra spazio pubblico e privato è fondamentale per la buona riuscita del progetto  e nell’applicazione di questo approccio alternativo. Basti pensare al fattore “navigazione” che, se nel privato induce ad una familiarità del luogo raggiungibile dopo un minimo sforzo mnemonico iniziale, nell’ambito pubblico è causa di stress poiché il rapporto non continuativo con lo spazio non dà tempo alla memorizzazione. In tal caso l’uso e il dosaggio dei segni e significati del progetto sono altri elementi necessari, perché sono un indizio ulteriore al nostro processo cognitivo di interiorizzazione dello spazio. Una maggiore conoscenza e padronanza nell’orientamento si traduce in una maggiore rilassatezza nell’approccio al luogo e di conseguenza un maggiore apprezzamento dello stesso.

foto n. de pisapia

foto n. de pisapia

Non è forse questo che si chiede ai nuovi spazi urbani ?

E non sono anche tutti i fattori sopra considerati elementi necessari a dare credibilità e attrattiva ad un luogo nel lungo termine, dopo che gi effetti di meraviglia e di stupore  - anch’essi importanti e tipici del primo impatto -  si estinguono ?  







Non solo"smart".Per una città antropocentrica

Tessuti urbani

Tessuti urbani

Quando si dice "Smart City" l'idea immediatamente associata è quella di una metropoli densa, digitalizzata, interconnessa, efficiente soprattutto per l'ottimizzazione dei consumi energetici e l'informazione condivisa in tempo reale. Il tutto è al servizio delle istituzioni, delle aziende e, in ultimo, del privato cittadino. Tralasciando la questione su quanto questo sia vero sulla carta e quanto nella realtà, c'è da osservare che il modello "intelligente" trascura quello che dovrebbe essere il principale obiettivo della pianificazione territoriale: il benessere spirituale e sociale, nonché intellettuale, del cittadino. L'agglomerato, sia esso urbano che rurale, è espressione e testimonianza della cultura di un luogo, e, in quanto tale, detiene la responsabilità digestire e governare una vita sociale salubre, attraverso l'espressione di valori etici e spirituali  che si esprimono con segni, suoni, odori. 

Montreal - Luminoterapia  (via  www.landarchs.com)

Montreal - Luminoterapia  (via  www.landarchs.com)


Per avere un'idea dell'importanza che un singolo segnale può avere sulla nostra mente consideriamo, da sola, l' esperienza visiva. Un qualunque elemento  che si incontra lungo un percorso viario viene sottoposto a una duplice interpretazione e codificazione: quella della visione centrale, che interpreta il suo significato intrinseco, e quella della visione periferica che lo colloca in un contesto scenico e lo carica di significati aggiunti fatti di ambientazione e eventi correlati. Damasio(1) sovrappone a questo doppio momento percettivo l'emozione primaria  - di natura primitiva -  e quella secondaria, di livello superiore, con la quale si forma la "sensazione" che caratterizza le nostre esperienze di vita e che quindi definisce i nostri comportamenti.

Questa semplice considerazione fatta solo sulla esperienza visiva ci fa capire l'importanza che un determinato contesto urbano può avere  sulla caratterizzazione di un gruppo, di un popolo.  

Se consideriamo il fatto che l'esperienza di noi umani è sempre multisensoriale, si intuisce che la responsabilità che ci investe nella definizione degli spazi urbani è enorme, nonostante sistimi che impieghiamo mediamente solo il 10% della nostra giornata negli spazi esterni. E se è vero che la complessità che pervade le metropoli apre a problemi di carattere pratico e numerico, come la gestione dei flussi e la distribuzione dei beni, è necessario anche adoperare strategie del design urbano per migliorare il benessere psicofisico dell'individui, prevedendo e definendo un "mentalscape" (2) positivo.

 

SouthBank arbour Brisbane (via landarch.com) 

SouthBank arbour Brisbane (via landarch.com)

 

L'essere umano è l'interazione con il territorio in cui cresce e vive: con esso egli stabilisce un rapporto simbiotico che lo trasforma costantemente con effetti nei tempi  brevi, medi e lunghi. Creare le condizioni ideali che evitino l'insorgere di fattori stressanti e che possano migliorare le nostre capacità intellettive è possibile strumentalizzando le numerose variabili che caratterizzano il luogo. Tracciati viari di facile decodificazione, facciate di edifici che considerino la loro potenzialità espressiva, aree verdi, installazioni artistiche, sono tutte occasioni per offrire esperienze rigeneranti.

Una città in armonia con il nostro benessere mentale può strumentalizzare i suoi elementi per offrire una positiva esperienza estetica: il passeggio lungo le strade, l'accesso ai mezzi di trasporto, le pause e le soste,che venga fatto in modo consapevole o non, possono diventare delle vere e propriepratiche contemplative che ci aiutano a vincere le ansie, a gestire lo stress, a modulare le emozioni, a migliorare le nostre capacità intellettive.


Note:

(1)  Antonio R. Damasio, L'errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, 1995

(2)   Marteen Jacobs, The production of mindscapes: a comprehensive theory of landscape experience, 2006

Comment

Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)