Zoom-in o Zoom-Out. Come approcciarsi alla neuroarchitettura?

Gli articoli scientifici sugli aspetti psicologici della architettura sono in grande aumento, specialmente se si considerano gli ultimi 5 anni. Tendenzialmente si assiste ad una proliferazione di ricerche che analizzano aspetti molto specifici come, per esempio, quelle che si dedicano alla relazione tra diverse forme geometriche ed i livelli di stress o ansia, oppure quelle che indagano l’influenza dei diversi parametri luminosi sul stato di allerta.

Piccoli frammenti di un puzzle complesso che è quello che rappresenta l’interazione delle persone nell’ambiente costruito.  Ma d’altra parte come pretendere di rivoluzionare l’approccio al design se non si fa riferimento all’evidenza scientifica, la cui attendibilità è legata all’osservazione di aspetti considerati isolatamente, pena la invalidazione del rapporto causa effetto del fenomeno osservato? 

iNTERNO VENEZIANO - G. Ascione

Esistono punti di vista che ritengono inefficace un tipo di approccio unicamente dettagliato e specifico, come quello del prof. Anjan Chatterjee, che nel suo articolo suggerisce un livello maggiore di astrazione per potere tenere a freno la considerazione di tante piccole variabili ingombranti, e quindi propone una maggiore attenzione sulle risposte psicologiche generiche delle persone all'ambiente. Il suo riferimento principale è una triade architettonica che consiste in 1) coerenza – quanto appare organizzato e leggibile uno spazio, 2) fascino – quanto complessa e ricca di informazioni è l’esperienza dello spazio, e 3) familiarità – quanto lo spazio genera un senso di appartenenza e comfort.

Una categorizzazione che sembrerebbe chiara e risolutrice in prima istanza, ma che sembra volgere lo sguardo indietro (e non mi riferisco alla triade vitruviana), verso le premesse di circa quaranta anni fa, quando si era agli albori della psicologia ambientale. All’epoca però la tendenza spingeva in direzione opposta, cioè si auspicava una sperimentazione rigorosa che producesse evidenze scientifiche e appigli per nuove teorie, le quali potessero comprendere e risolvere la complessità del tipo di indagine dissipando le incertezze e vaghezze.   

Già agli inizi degli anni 70, prima che si sviluppassero le neuroscienze, l’attenzione nei confronti della psicologia era molto forte, e  nasceva soprattutto da una pluralità di interessi che erano però esterni alla psicologia stessa (quella tradizionale), e la psicologia ambientale era una di queste.

imMAGINE DI rOCIOE deL pILAR

Uno studio del 1970 condotto da W.H. Ittelson, mette già in evidenza la difficoltà di ridurre l’esperienza di un spazio ad un rapporto semplice di causa-effetto, tra lo spazio e la persona, sia che si consideri prima l’uno o l’altro. Essa dimostra, con dati alla mano, quanto fenomeni di interazione semplice determinino situazioni molto poco scontate e soggette a dinamiche psicologiche non proprio intuitive. Lo studio osserva il comportamento di due gruppi di pazienti di un stesso ospedale psichiatrico che si distinguono rispetto a due diverse sistemazioni. Un gruppo viene sistemato in una struttura di camere multiple, mentre il secondo gruppo è accomodato in camere individuali.  Nell’ipotesi semplicistca di causa-effetto tra spazio ed individuo, verrebbe da aspettarsi che lo spazio condiviso agevolerebbe un’interazione sociale maggiore, e che invece un comportamento più introverso verrebbe registrato nel gruppo di coloro che alloggiano in camere individuali. Accade invece completamente il contrario perché le persone reagiscono non tanto direttamente all'offerta esplicita ma alla percezione di libertà che tale di quella scelta che ne deriva. Si verifica quindi che un maggior numero di interazione è registrato  nella struttura a camere singole, perché si verifica una percezione di un più vasto margine di possibilità alternative, cosa che invece le stanze  multiple non mettono a disposizione. Quando si parla di gioco di sponda in un precedente articolo di questo journal si fa riferimento proprio a queste serie di rimbalzi tra elementi fisici e non,  ma anche a  logiche di insieme, cioè di sistemi complessi che è difficile congelare e replicare in quanto legati  a situazioni contingenti.

Nel campo delle neuroscienze applicate al design succede anche che, a seconda del punto di vista adottato, le cose vengono interpretate e analizzate in modo diverso. L'architetto tende a vedere lo spazio come stimolo alla risposta comportamentale della persona-utente, mentre  lo psicologo imposta l’indagine in maniera opposta, vedendo le  persone come determinanti  delle caratteristiche dell’ambiente  (nonostante considerino elementi fisici inamovibili). Questo rende il dialogo interdisciplinare estremamente complicato. 

mETRO nAPOLI DI g. aSCIONE

A rendere ulteriormente complicata l’anticipazione di certe dinamiche spaziali, in vista di una progettazione di qualità che risponda alle aspettative, è il fatto che il  successo  dipende dalla chiarezza dell'obiettivo prefissato. Il tempo è un elemento che discrimina molto i tipi di indagine. Cerchiamo un effetto a breve o a lungo termine? Qual è lo scopo dell’analisi, siamo interessati a guidare le persone nell’esperienza dinamica di un ambiente, e a valutare le loro possibili scelte comportamentali, oppure cerchiamo un’atmosfera da sogno, per un effetto rigenerante all’istante? In poche parole parliamo di una sala di attesa in una stazione oppure di un percorso museale, o, ancora diversamente, pensiamo ad un’area per il co-working?  

Applicare la scienza, che siano neuroscienze, statistica, o le conoscenze di psicologia comportamentale, non danno una garanzia di completo controllo del progetto, ma danno garanzia sulla cura di alcuni aspetti che si stabiliscono come prioritari, che sono poi quelli richiesti dal committente, sia esso mosso da interessi privati o da esigenze e aspettative etico-sociali del pubblico.  Non si tratterà mai di una previsione completa di quello che accadrà in quello spazio ma sicuramente è un modo per anticipare gli aspetti considerati, e decidere a quali dedicarsi in modo particolare. Siamo consapevoli che ci troviamo di fronte a fenomeni “organici” perché umani, pertanto il team di progettazione necessita un lavoro di coordinamento di vari punti di vista e di diverse capacità creative per risolvere conflitti.

Un approccio artigianale si potrebbe definire, anche se il termine suona molto strano in un’epoca pervasa dalla tecnologia AI.    

Il Destino (di)segnato

Chi non si è mai trovato ad osservare un rendering di ambienti architettonici? Che siano schizzi a mano libera o modelli CAD in 3d essi risultano molto suggestivi e realistici, una restituzione artistica nel primo caso, quasi una fotografia nel secondo. Essi aiutano il progettista a esprimere aspetti che un disegno tecnico non può cogliere.

Faro Santander, progetto di Chipperfield

Luci rifesse che restituiscono colori, ma soprattutto superfici quasi tangibili, al punto da immaginarsi odori e suoni. Nonostante questa fedele restituzione della scena architettonica lo strumento progettuale nasconde il limite della sua funzione di controllo sulla riuscita effettiva dell’ambiente progettato, pur convincendo l’occhio del cliente inesperto.

Basta soffermarsi su quelle sagome di persone inserite e sovrapposte al disegno, osservare il loro linguaggio corporeo standardizzato e limitato in un numero finito di pose, espressione a loro volta di un momento sospeso, per capire che si sta descrivendo una bolla temporale che non appartiene al flusso delle contingenze. Se riflettiamo sul potenziale movimento biologico suggerito dalla postura, rileviamo un’assenza di reazione cognitiva ed emotiva, una esperienza messa in standby per dare risalto solamente (e naturalmente) alle funzioni spaziali degli elementi di arredo.

Ma quale sarà il destino delle persone vere che andranno ad occupare quegli spazi? Si potrebbe garantire un maggiore controllo sulla riuscita del progetto se si considerasse l’interazione degli utenti dal punto di vista psicofisiologico e non esclusivamente ergonomico?

Noi essere umani, quando siamo calati realmente in una situazione, siamo sottoposti a migliaia e migliaia di stimoli. Se vogliamo considerare solo la visione sappiamo che ogni piccolo dettaglio colpisce la nostra retina, ma non siamo capaci di ritenere tutto perché il nostro cervello è troppo piccolo. E allora il nostro cervello fa una selezione facendo entrare in gioco l’attenzione, che sceglie quello che deve essere elaborato.

Ma quale attenzione? A tirarla in ballo in questo modo sembra che dobbiamo fare uno sforzo mentale in ogni istante della nostra vita. In realtà “attenzione” è un nome collettivo con cui indichiamo una famiglia di meccanismi che restringono o indirizzano l’elaborazione in vari modi, e in diverse parti del sistema nervoso. Essa può essere esterna, rivolta verso l’ambiente intorno a noi, e può essere interna, quando segue la nostra linea di pensiero. Inoltre può essere esplicita, implicita, sostenuta, cioè di vigilanza su un fenomeno o oggetto. Soprattutto può essere una combinazione di alcune di queste appena citate. Ovviamente più sono gli stimoli più ci sforziamo nella selezione dell’attenzione, e più paghiamo il prezzo legato all’energia mentale coinvolta.

Prendiamo per esempio la progettazione di un’area di lavoro collettiva, che accolga più gruppi aggregati, e immaginiamo di dover decidere il layout interno rispetto a condizioni architettoniche già fissate nell’edificio. I progettisti dedicano molto tempo alla scelta del materiale del colore delle pareti, alla rifinitura del pavimento, e dispongono le scrivanie immaginando e giudicando il risultato valutando il rispetto delle norme, del buon senso, e soprattutto l’armonia deli elementi di arredo, ma pensano poco a quello che realmente potrebbe accadere ai comportamenti ed ai pensieri delle persone.

immagine di G. AsCIONE

Una persona seduta alla scrivania può apprezzare - a livello tattile e propriocettivo - la comodità di una sedia, oppure giudicare l’altezza del piano di lavoro e la sua adeguatezza all’uso della tastiera. Il giudizio estetico sicuramente caratterizza il primo impatto, ma poi diventano altri i fattori coinvolti che definiscono interamente l’esperienza della giornata lavorativa. Si dà peso alla qualità di un paesaggio esterno e al modo in cui una finestra concede questa scena, ma soprattutto pesa il modo in cui la postazione si relaziona con le altre e come vengono controllati i coni visivi dei colleghi, il grado di discrezione del proprio schermo. La possibilità di spostarsi da un ambiente all’altro, di assumere diverse posture, diventa indice del proprio grado di libertà e della possibilità di perdersi in momenti di divagazione senza avere la sensazione di essere giudicati. Ma si cerca anche l’opportunità di incontri casuali e non, grazie ai quali un breve confronto di idee sul progetto può aiutare a risolvere problematiche, a coordinare soluzioni individuali.

Lo spazio ci educa e decide il nostro destino, ma spesso non ci rendiamo conto del peso che piccole variazioni del layout possano avere. Basta veramente poco per innescare un effetto domino che si ripercuote al livello personale ed interpersonale, e determina una situazione complessa.

Ricordiamoci quindi che le sagome sovrapposte ai render architettonici a conclusone di un progetto fanno riferimento a persone vere, diamo loro un’anima e valutiamo tutti le possibili reazioni ai fenomeni che possono scaturire dalla storia che si sta raccontando. Gli strumenti per fare questo, ormai, ci sono tutti.

 
























Comment

Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)

Architettura delle scelte nelle architetture dello spazio

Qual è la relazione tra Nudging e Architettura?

La tecnica del nudge, cioè della persuasione a prendere determinate scelte piuttosto che altre, è molto spesso applicata in un contesto ambientale, pertanto si interfaccia con le discipline legate alla progettazione degli spazi .

Da non confondere assolutamente con le tecniche di manipolazione del comportamento, il nudging rappresenta un aiuto al processo decisionale dell’utente, il quale è consapevole e concorde sul raggiungimento di un obiettivo prefissato. Il premio nobel Richard Thaler , insieme al suo collega Cass Sustein, attribuiscono a questa tecnica un carattere paternalistico-libertario, una terminologia che, per quanto possa risultare un ossimoro, esprime sinteticamente i valori sottintesi che possono legittimarla.

Immagine da teachable

Quando il nudging si applica al design di ambienti istituzionali esso esprime la sua vera potenzialità e legittimità, perché è qui mirato al fine nobile che riguarda il benessere dell’individuo e della comunità a cui egli appartiene. Il dibattito sulla legittimità si accende quando si applicano le stesse tecniche agli spazi commerciali, come i supermercati, dove l’utente percepisce l’intento manipolatorio, e cioè quando avverte di essere dirottato su determinati acquisti piuttosto che altri. Ma anche in quest’ultimo caso il concetto di liberalità è salvo se si rispettano tre principi base che legittimano “la spinta gentile , e cioè la trasparenza, il carattere facoltativo, ed il valore pubblico. Il valore pubblico sussiste quando gli interventi strategici sono finalizzati all’adozione di stili di vita salubri, e nel caso del supermercato varrebbe la spinta all’acquisto di cibi sani.

E’ piuttosto sorprendente che bisogna ricorrere a espedienti di psicologia comportamentale per condurre l’utente alle scelte più virtuose, ma purtroppo la colpa è del nostro complesso cognitivo, che non è un sistema coerente ed organico. Le nostre scelte non sono sempre razionali perché abbiamo l’istinto a prendere scorciatoie e a subire i condizionamenti che derivano dall’emozione, dall’interazione sociale e dal contesto ambientale. Tali impulsi minano il comportamento più coerente anche quando ci si trova davanti ad una persuasione in linea con gli interessi dell’individuo.

Schema esplicativo delle 4 categorie di nudge. Tipo 1 (Riflessivo) e Tipo 2 (Automatico). Trasparente/ Esplicito e Non Trasparente/Implicito

Quando però l’approccio diventa troppo educativo si corre il rischio di innestare un atteggiamento di ribellione “adolescenziale” che può evolversi in posizione complottista, di sfiducia perfino nei confronti di prove scientifiche.

Lo schema sovrastante esprime le 4 principali classificazioni rispetto ad un intervento di persuasione. Difficile dire a priori quale categoria sia la più giusta ed efficace, perché spesso essere espliciti (trasparenti) non fa raggiungere importanti obiettivi voluti, come nel caso della segnaletica stradale che impone il limite di velocità, lungo il River Shore Drive a Chicago (vedi foto e nota in fondo).

La progettazione delle architettura degli spazi e delle scelte (e qui sono due competenze che devono collaborare) esprime inevitabilmente il punto di vista di chi redige la strategia , e per questo è fondamentale capire quanto l’organo decisore sia stimato e legittimato. Certamente l’intervento è percepito diversamente a seconda che lo stratega sia il Ministero della Salute oppure un privato, quale una organizzazione lavorativa. La seconda deve fare uno sforzo ulteriore per legittimare il suo intervento, la sua sfida è più difficile, ed è fondamentale analizzare le caratteristiche contestuali ed i frame comportamentali che le caratterizzano per stilare una strategia di successo.

In ogni caso, anche in contesti facili, cioè in condizioni di alta eticità e forte motivazione, non si può pretendere che il nudging sia l’unico strumento per la trasformazione, ma piuttosto deve essere inteso come un modo per massimizzare l’impatto di più misure prese, tra cui gli incentivi e i mandati.

Le strategie adottabili , che fanno tesoro delle conoscenze di psicologia e delle scienze cognitive, sono innumerevoli e vanno valutate caso per caso. Si può spingere alla scelta di un percorso perché questo assicura una esperienza più piacevole, perché può facilitare la risoluzione di problemi periferici, perché può garantire un vantaggio o, molto meglio, può garantire il mantenimento del vantaggio già acquisito (l’avversione per le perdite è maggiore rispetto al non raggiungere una vittoria).

Tutto queste strategie, infinite quanto lo sono i processi cognitivi che gli psicologi e gli scienziati cognitivi conoscono bene, si traducono facilmente in scelte progettuali dello spazio, che il designer può mettere in campo a partire dall’impostazione dei percorsi, dalle scelte delle rifiniture, e nelle gerarchie dei sottospazi.

Il successo è garantito se ad un buon design-thinking e ad una consulenza specifica si unisce un’ottima tecnica creativa. E poco importa se non si registra una totale partecipazione degli utenti, perché alla fine è l’impatto sociale, più di quello individuale, che conta maggiormente.

River Shore Road di Chicago (vedi nota*)

NOTA* Il lago Michigan è un esempio di nudging applicato a scale più grandi della progettazione degli spazi, quali la pianificazione del territorio. La strada che lo costeggia è panoramica ma presenta una serie di curve pericolose. Siccome molti autisti all’inizio non prestavano attenzione al limite di velocità segnalato la città ha adottato un nuovo modo per incoraggiare i conducenti a rallentare. Una serie di strisce bianche dipinte sulla strada che non sono dossi di velocità ma semplicemente inviano un segnale visivo ai conducenti. Quando le strisce compaiono per la prima volta, sono distanziate uniformemente, ma quando i conducenti raggiungono la parte più pericolosa della curva, le strisce diventano più ravvicinate, dando la sensazione che la velocità di guida sia in aumento e innescando l'istinto naturale a rallentare.

Comment

Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)

Interior Design, gioco di sponda per la trasformazione comportamentale

Credo sia legittimo paragonare il design di interni al gioco di sponda, con criteri e strategie molto simili a quelle adottate nel gioco del biliardo, o delle bocce. Fare sponda significa appoggiare, facilitare una determinata azione, e in ambito della progettazione di interni, vuol dire aiutare le persone a migliorare la loro esperienza legata all’ambiente specifico, e quindi creare luoghi che facilitano le attività legate alla loro specifica funzione, spazi responsivi alle interazioni degli utenti

Lo spazio costruito e il gioco di sponda.  (Img  G. Ascione)

Lo spazio costruito e il gioco di sponda. (Img G. Ascione)

Non pensiate che la digitalizzazione sia l’unica via da seguire per creare di un ambiente interattivo e responsivo, anzi. Le interferenze a livello percettivo, che utilizzano le dinamiche psicologiche, si esprimono maggiormente con le geometrie, con la disposizione degli arredi, con i tipi di illuminazione.

La neuroarchitettura impone un modello progettuale capace di creare le sponde, cioè quelle interazioni tra l’utente e l’arredo che incanalano la persona verso nuovi comportamenti, e fa percepire “il rimbalzo” come una sorta di naturale flusso da seguire e non come coercizione.

Se ci guardiamo attorno notiamo che esistono da sempre alcuni elementi architettonici che assolvono a questo compito, anche se, il fatto che essi siano protagonisti delle nostre esperienze di vita da oltre un millennio, non ci rende consapevoli della loro efficacia.

I corridoi stretti e lunghi, per esempio, già presenti nelle antiche strutture greco-romane, non lasciano molto spazio a scelte alternative se non quella di percorrerli in tutta la loro lunghezza senza poter cambiare la traiettoria. Certo si può fare dietro front, ma non avrebbe senso.

Quanto detto serve a riconoscere il nuovo ruolo del designer che sembra investito di una responsabilità e funzione sociale che va ad aggiungersi alla funzione di organizzare spazi e restituire gusto estetico. Di questa nuova valenza professionale non c’è ancora piena consapevolezza, e la diffusa cultura del costruito fa molta fatica a riconoscere la necessità di coinvolgere questa competenza nel team di progetto.

Immagine da www.positivemindfulleader.com

Immagine da www.positivemindfulleader.com

Per fortuna non mancano in giro esempi di buona architettura, quella per cui il valore aggiunto non è tangibile nell’immediato, ma è percepito nella iterazione dell’esperienza e quindi nel tempo. Si tratta di realizzazioni che hanno coinvolto conoscenze trasversali, del campo della psicologia e fisiologia, grazie alle quali l’artefatto ha acquisito una sorta di organicità e dinamicità finora poco presenti.

Consideriamo, per esempio, la progettazione dei bagni in una scuola elementare, e supponiamo che l’incarico non riguardi semplicemente la realizzazione di un contesto per lavarsi le mani, ma richieda di perseguire l’obiettivo di abituare i bimbi di età prescolare a lavarsi le mani ogni qualvolta utilizzano la toilette. Supponiamo anche che i bimbi abbiano radicato in loro la percezione che questa abitudine rappresenti una inutile perdita di tempo. Come fare?

Creare dei lavabi con rubinetti accessibili e a misura di bimbo sicuramente è il punto di partenza. Un remainder sulla parete potrebbe essere efficace ma mancherebbe la componente essenziale: la motivazione interna a compiere quel gesto. Anche se ci fosse un adulto sempre presente a sottolineare l’importanza e l’utilità del gesto non si lavorerebbe sulla motivazione. Una ricompensa ripetuta, espressa da una simpatica faccina che compare sullo specchio, potrebbe invece funzionare laddove è impossibile indurre un convincimento. Alla lunga l’atto di lavarsi le mani diventerebbe automatico e quindi acquisito come naturale e imprescindibile.

Per comprendere quali possono essere le dinamiche per assicurare il successo dell’intervento bisogna capire dove si colloca la difficoltà dell’iniziativa. Cominciare qualunque cosa nuova rappresenta un momento importante, che richiede una forte energia di spinta a causa di una inerzia mentale intrinseca, che limita la nostra capacità di intraprendere nuovi percorsi e farceli propri. Il fattore paura, a livello inconscio, è sempre lì pronto a metterci a disagio.

La progettazione degli spazi quindi può aiutare ad un rapido debug del disco rigido mentale, indispensabile per imparare, disimparare e imparare di nuovo, e quindi facilitare il cambiamento. In questa situazione è fondamentale intervenire nutrendo il nostro cervello con pensieri affermativi, mai negativi. La coercizione, che la segnaletica dei divieti esprime, non crea il sopracitato debug, ma aumenta la paura e lo stress, e decreta l’insuccesso del cambiamento richiesto e dell’accettazione del nuovo.

Ma cosa significa creare risposte affermative in uno spazio?

Significa incoraggiare piuttosto che negare, attraverso una politica della ricompensa legata alla scelta virtuosa. E’ ormai conoscenza diffusa la strategia del nudge usata nelle lobby degli edifici, dove l’ascensore è ben nascosta alla vista degli utenti esterni in modo da stimolare l’uso delle scale attraverso un design delle stesse piuttosto attraente. Tale scelta è ritenuta la migliore perché favorisce il movimento e quindi il fitness cardiocircolatorio. Si tratta di un esempio banale, che nel tempo ha cercato di adottare sempre nuove soluzioni, come quello di ricorrere a feedback sonori o visivi gradevoli, che ripagassero della scelta virtuosa fatta, oltre che suggerirla in modo discreto e gentile.

La Metropolitana di Odenplan a Stoccolma

Il meccanismo della ricompensa ha il suo risvolto negativo di cercarne e di aspettarne sempre una nuova, ma questo non rappresenta un problema nel nostro caso. Sia per il caso dei bambini a scuola, che per gli utenti degli edifici pubblici, l’obiettivo non è generare continuo stupore o sorpresa (ben venga anche quella), quanto piuttosto creare una buona abitudine. La ripetizione di un atto, che sia all’inizio recepito come nuovo e che richiede un atto di volontà più o meno dispendioso, porta alla acquisizione dell’automatismo che alleggerisce il carico sia a livello mentale che a livello motorio (fisico - propriocettivo).

In questo periodo di grande cambiamento culturale che esige l’affermazione di stili di vita più salubri, è importante considerare la progettazione architettonica un potente ed efficace strumento di trasformazione politica e sociale.





.



Comment

Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)

Neuroarchitettura 2.0 Edifici con l'anima

Ada 2.png

Al principio si pensava che il connubio tra neuroscienze e architettura avrebbe portato a due percorsi molto distanti e diversi tra loro. Il primo caratterizzato da quello che effettivamente sta accadendo, e cioè l'applicazione delle conoscenze in campo cognitivo, neurofisiologico e psicologico alla progettazione, per creare ambienti (statici) che aiutano a svolgere al meglio le attività a cui lo spazio è destinato. Il secondo percorso, invece,riguarderebbe lo sviluppo di edifici intelligenti, cioè di edifici dotati di sistemi tecnologici avanzati che permettono una continua interazione con gli occupanti e un adeguamento dello spazio alle diverse esigenze rilevate. Trattasi di un’architettura dinamica, che si può definire neuromorfica o responsiva alle esigenze più svariate, che siano esse relative alla sfera emozionale, sociale o prettamente di tipo fisiccorporea. Il neologismo neuromorfico è da attribuire a Michael Arbib, neuroscienziato, ingegnere e psicologo, nonché professore alla USC (California), quando nel 2012 ha presentato un articolo scientifico che descriveva "ADA - lo spazio intelligente", un padiglione visitato da oltre 550.000 ospiti all'Esposizione nazionale svizzera del 2002. Questo edificio presentava un'infrastruttura interattiva basata (in parte) su reti neurali artificiali (ANNs), e aveva la pretesa di “provare emozioni' e di “giocare” con visitatori. Con una banale rispondenza delle luci a pavimento ai passi delle persone danzanti, la pista da ballo restituiva ritmi e frequenze del movimento, in armonia con il comportamento degli occupanti, attraverso una illuminazione psichedelica generata inconsapevolmente dagli stessi utenti. Il termine neuromorfico non si riferisce ad una replica delle azioni umane, quanto piuttosto alla loro interpretazione e reazione alle stesse. Nel suo articolo ormai datato Arbib già prende definitivamente le distanze dal vecchio concept di casa intelligente, abitata e appesantita da robots antropomorfi, che replicano le azioni umane. La nuova protagonista è una tecnologia silenziosa, discreta e leggera, che coincide perfettamente con le caratteristiche dei sensori corporei e ambientali che sono attualmente disponibili sul mercato. Stranamente però questo filone stenta ancora ad affermarsi, nonostante le tecnologie disponibili possano contare sul connubio con discipline neuroscientifiche come scienze cognitive, machine learning e intelligenza artificiale che sono all'altezza delle aspettative.

In realtà timide espressioni di edifici responsivi, cioè animati al punto di modificarsi e adattarsi alle diverse esigenze mutanti degli occupanti in tempo reale, già esistono. Si pensi alla domotica, che è capace di interpretare alcuni segnali ambientali per modificare le aperture delle finestre e dei tendaggi. Si pensi quindi anche ai sistemi di sicurezza, che attraverso database aggiornati a distanza possono riprogrammare il funzionamento dei sistemi di allarme o degli elettrodomestici in assenza degli occupanti. Si tratta di applicazioni che migliorano il comfort dell’ambiente, ne semplificano la gestione, restituendo una qualità di vita migliore dal punto di vista gestionale, ma non necessariamente garantiscono un benessere in senso lato. In poche parole possiamo asserire che gli edifici altamente automatizzati possano dimostrare di avere un cervello, ma non certamente un’ anima.

Ma cosa intendiamo per anima quando si sta parlando di edifici? Si intende forse la loro capacità di interpretare ed interagire con i bisogni non solo materiali delle persone, ma anche cognitivi, sociali e spirituali?

Le neuroscienze ormai permettono di interpretare e tradurre in numeri anche i nostri stati psico-fisici e quindi, perché non pensare di creare dei sistemi spaziali che oltre ad essere a misura d’uomo in termini di affordance e usablità siano garanti di benessere a 365 gradi ?

Lo scoppio della pandemia causata dal covid-19 ha bruscamente interrotto alcune speculazioni sulle possibili applicazioni delle tecnologie e delle neuroscienze all'architettura, e sta definitivamente spostando il focus della ricerca su problematiche legate alla sicurezza sanitaria. Il contenimento del contagio (informazione e controllo sul traffico degli occupanti in tempo reale) e la riduzione della percezione del rischio (garanzia di un diffuso senso di sicurezza), rappresentano le urgenze più immediate. Ma si prevede, che una volta superata la crisi, l'obiettivo principale della politica diventi quello di assicurare uno sviluppo territoriale che garantisca a tutti uno stile di vita sano, capace più di prevenire la cura anziché applicarla.

BIM MAN. alto 170 m, di Ove Arup: Antropomorfismo apparente

BIM MAN. alto 170 m, di Ove Arup: Antropomorfismo apparente

Questa nuova nuova esigenza sembra attivare un processo evolutivo in ambito progettuale che si impone con una forza ben maggiore delle precedenti tendenze di mercato e stilistiche. La coincidenza che questa spinta nasca proprio in concomitanza con l’onda derivante dalla disponibilità di un rinnovato sapere scientifico e tecnologico determina, in modo “endogeno” una rivoluzione progettuale che andrà sempre più nella direzione di un’ architettura “neuro”. Questa si imporrà in modo sempre più naturale, convincente e democratico, in quanto si rende garante di maggiore salubrità.

La complessità del linguaggio, alla fine, è solo apparente.

La disponibilità di nuovi dati da parte delle neuroscienze, capace di trasformare reazioni fisiologiche e anche modelli comportamentali in numeri, consentirebbe la programmazione di intelligenze artificiali che, nell'interpretare gli stessi dati, restituirebbe agli spazi da vivere quel cervello “emotivo” di cui avrebbero bisogno per diventare completamente responsivi.

Codificare e decodificare

Codificare e decodificare

I due percorsi a cui abbiamo fatto riferimento a capo dell’articolo, cioè quello statico, (legato alla biofilia e alla psicologia ambientale, che è già realtà - per quanto ancora di nicchia), e quello dinamico, (dell’architettura neuromorfica, percepito ancora come utopico e avveniristico), potrebbero adesso fondersi per creare un unico approccio, un paradigma progettuale che può risolvere l’antica dicotomia che contrappone l’estetica alla funzionalità degli spazi architettonici. Se la biofilia ci insegna che la bellezza trova la sua ragione nel giusto equilibrio degli stimoli sensoriali, il supporto di una tecnologia discreta consente di rispondere in modo dinamico e adeguato ai diversi stimoli.

Non sappiamo se il progetto ambizioso di realizzare un edifico responsivo nel suo complesso, come quello anticipato da Arbib, possa essere un risultato immediato, ma di sicuro sarà innescato  un processo che, partendo dal basso, e rispondendo a esigenze e a committenze diverse, integrerà sub-sistemi sensibili,  reattivi ma  indipendenti. Chissà se poi il tempo darà il suo contributo per consentire il dialogo tra le distinte competenze e i diversi linguaggi, e restituire all’edificio una intelligenza compassionevole ed empatica  che si prende cura dei suoi residenti.  

 Sarà poi azzardato chiamarla anima?  









Comment

Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)

Neuroarchitettura a Scuola : Primi Passi del Protocollo

La Neuro-architettura è una disciplina ancora prevalentemente teorica. Essa si basa su principi di evidenza scientifica per valorizzare le potenzialità osmotiche degli spazi costruiti, cioè per creare ambienti rigeneranti e strumentali per lo svolgimento delle attività ospitate. Purtroppo capita che laddove il confronto interdisciplinare e la ricerca trovano consenso ed entusiasmi, nasce la perplessità su come affrontare la fase successiva, e passare dalle parole ai fatti, per confrontarsi finalmente con un mondo delle costruzioni fatto anche di norme, vincoli e soprattutto pregiudizi.

Il cortile /giardino a sud con la seduta-nastro che collega l’atrio con l’esterno

Il cortile /giardino a sud con la seduta-nastro che collega l’atrio con l’esterno

La progettazione della scuola a Palù (VR) è una occasione ghiotta perché riguarda l’ utenza legata alla fascia dell’età evolutiva,  che è estremamente reattiva agli input dell’ambiente circostante.

Le difficoltà non esitano a presentarsi sin dal primo momento. Le normative nazionali più che le direttive locali dettano vincoli volumetrici, ed il budget si presenta piuttosto contenuto.  L’aspetto positivo? L’entusiasmo e la buona volontà delle architette di Alighieri 50, e di alcuni membri della committenza, che hanno creduto fortemente in una progettazione integrata, mirata ad una qualità esperibile non solo a livello estetico e funzionale, ma in modo più profondo, viscerale e a lungo termine.

Inserimento dell’edificio nel territorio

Inserimento dell’edificio nel territorio

Il contesto territoriale anche rappresenta un punto a favore, poiché assicura una buona qualità dell’aria, una ottima vista del paesaggio e abbondante illuminazione naturale, nel rispetto del ritmo circadiano. Un orto didattico autogestito, il giardino/cortile a sud/ovest e un frutteto privato poco distante sono una ottima fonte di odori e profumi che non solo stimolano l’approccio conoscitivo multisensoriale dei bimbi, ma aiuta nella consapevolezza ambientale.  

Il plesso scolastico, che comprende una sezione elementare ed una materna, rappresenta, a livello territoriale, una grande opportunità anche per arricchire il tessuto sociale, attraverso la politica dell’intersettorialtà e delle sinergie tra le diverse attività comunitarie.

L’approccio progettuale, e quindi la scelta distributiva delle diverse sub-attività, non sono frutto esclusivo di una logica funzionale, ma il risultato di un'analisi approfondita e distinta del comportamento dei bambini, dei docenti e del personale ATA. C’è alla base una volontà di creare aspettative ritmate da sorprese e conferme, e di rispondere all’esigenza di un processo di sviluppo mentale e sensoriale non ancora completo, che per i bimbi più piccoli è solo all’inizio.

L’atrio di ingresso, situato nella sezione elementare ad est, ha richiesto un’attenzione particolare nel dover conciliare il carattere di “spazio rappresentativo polifunzionale” e l’esigenza di ottimizzare l’esperienza per le utenze diverse e nelle diverse occasioni. Esso è preceduto da un ingresso volutamente compresso (l’altezza è ridotta e una luce rossa lo pervade) che aiuta a costruire la giusta aspettativa e quindi l’effetto sorpresa dello stesso.  L’improvvisa dilatazione del volume si armonizza con la luce diffusa proveniente dall’alto, in un gioco di contrasti e di forme più fluide dell’elemento vasca, che lo distingue fortemente dal resto del connettivo. Lo specchio d’acqua, in asse con il cono di luce del lucernario, enfatizza la presenza della natura all’interno, oltre che creare un dialogo diretto con l’esterno grazie alla seduta a nastro che, replicando la stessa curva, guida lo sguardo fuori, fino al giardino a sud.

Scorcio dell'atrio e -da sx - l’accesso alla mensa, l'ingresso, l’area polifunzionale e la reception desk .

Scorcio dell'atrio e -da sx - l’accesso alla mensa, l'ingresso, l’area polifunzionale e la reception desk .

Un’aura di pacata autorevolezza, assolutamente non di autorità, investe quindi lo spazio di accoglienza, come una sorta di manifesto che induce i bimbi più grandi alla consapevolezza del percorso di crescita e di maturità rispetto ai primi anni della scuola materna.

Il senso dell’orientamento, importante quanto l’educazione alle forme, ai colori e alle profondità spaziali, richiede una intelligibilità dell’intero spazio che ne faciliti lo sviluppo. Per questo motivo è stata adottata una geometria di base regolare e semplice, con una percorrenza principale altamente intellegibile anche se mai scontata.  I corridoi, dai colori neutri dall’effetto calmante, vengono in più punti interrotti e dilatati, trasformandosi da luoghi di mero passaggio in opportunità di riflessione autonoma e/ confronto a due, utili per il superamento di quegli occasionali momenti di disagio emotivo. Grazie alla cura del dettaglio offerto da un arredo dedicato e da una illuminazione fatta di fasci luminosi diversamente direzionati (siano essi naturali o non), questi sottospazi riescono a offrire il giusto livello di privacy ed intimità, appartando ma non isolando dal contesto.

Le forme libere dei soffitti e dei pannelli fonoassorbenti offrono indizi di profondità

Le forme libere dei soffitti e dei pannelli fonoassorbenti offrono indizi di profondità

Le aule didattiche sono differenziate tra loro per creare esperienze uniche che, adeguate alla fase di crescita, possano cadenzare il passare del tempo e sedimentare una ricca memoria storica.

Nella sezione materna si ricorre a stimolazioni più forti, grazie all’uso di colori più vivaci e saturi e all’adozione di un impianto planimetrico che rompe gli schemi tradizionali. Cinque lati, e non quattro, aiutano quindi a creare un’esperienza spaziale più articolata.In questa ottica di geometrie libere le altezze dei soffitti sono variabili, e accade che a volte questi ultimi si inclinino in prossimità della finestra, per creare giochi di riflessi inusuali e per stimolare la curiosità. Un gioco di nicchie lungo le pareti, particolarmente ricco nella sala dedicata alle pratiche meditative e al riposo, offre un’esperienza insolita di rifugio che, secondo i principi dei design biofilico, aiuta nella costruzione della fiducia in se stessi esd è risolutiva nei momenti di iperattività.

Chi ha paura del buio?

C'è un grande bisogno di spazi antropizzati che ci confortino, ci regalino opportunità di riflessione e introspezione. Le città esistono da diversi millenni ed hanno sempre rappresentato, pur nella loro semplice organizzazione, realtà fisiche che costruiscono e confermano la nostra identità spirituale, sociale e culturale. Eppure negli ultimi decenni i centri urbani si stanno trasformando in meri sistemi di collegamento tra residenze, attività e servizi, in cui si innescano silenziosi dei fattori stressanti che cronicizzano e si trasformano in nevrosi e schizofrenie

Budapest al crepuscolo . Foto di Giulia Ascione

Budapest al crepuscolo . Foto di Giulia Ascione

I percorsi urbani sono efficaci nel forgiare la nostra esperienza quotidiana e di vita perché avvengono con una sistemicità e costanza maggiori rispetto alle più rigeneranti ma sporadiche esperienze naturalistiche.   L’ipotesi biofilica ci spiega quanto benefico e quindi necessario sia arricchire il paesaggio urbano con elementi naturali, quali l’acqua e il verde, ma poco si parla di quanto sia pericoloso privare l’uomo di una esperienza fondamentale per il suo metabolismo e sistema fisiologico: il buio.

Il buio è diventato il capro espiatorio del fenomeno di degrado di molte aree urbane, poiché le zone scarsamente illuminate registrano una più alta percezione del rischio e un conseguente fenomeno di desertificazione e quindi di degrado. La illuminazione notturna è diventata una discriminante per la qualità di vita di un quartiere: più le zone sono illuminate più sono invitanti e maggiore è il successo garantito per le attività commerciali. Il bagliore delle aree metropolitane di oggi produce una luce diffusa su scala territoriale di 4 lux, che equivale a 4 volte il bagliore generato dalla luna piena e oltre 100 volte l’illuminazione del cielo stellato. Una condizione luminosa che stravolge quelle che sarebbero le condizioni naturali e che ha un forte impatto sulla nostra psiche e sul nostro fisico.

Il nostro sistema visivo è stato programmato per una visione fotopica (diurna), ma anche per una visione scotopica (notturna). L’occhio umano presenta sul fondo della retina due tipi di fotorecettori distinti per queste due modalità percettive. I coni ci restituiscono i colori, le forme, i dettagli della vista centrale, mentre i bastoncelli ci aiutano a cogliere il movimento e la vista periferica, e percepire la realtà circostante in condizione di scarsa illuminazione, quale può essere quella offerta dal cielo notturno.

Ma la vita offre ancora esperienza del buio? O questa è un’altra condizione naturale importante che ci viene negata? Ritornando a quanto detto all’inizio, cioè al nostro bisogno di ricevere conforto dall’ambiente in cui viviamo, c’è da dire che il concetto di oscurità è strettamente legato all’esperienza del silenzio, del vago e quindi della tranquillità.

bigstock-Open-Door-To-Dark-Room-With-Br-81520766.jpg
Do we need a little more darkness to challenge ourselves to adapt, and perceive more?

 (trad.: “Abbiamo bisogno di maggiore oscurità per adattarci a essa e percepire di più ?”) E’ una domanda che la lighting designer C. Tomara pone in un suo articolo sull’evento PLDC2019, in particolare per l’installazione della Dark Art Room. L’autrice intende sottolineare quanto sia meravigliosa e nel contempo sconosciuta la nostra capacità visiva di adattarsi al buio. La sua riflessione mi ha rimandanto a una diversa e personale considerazione, basata su una esperienza di qualche tempo fa, quando mi sono ritrovata a percorrere una strada della mia città di origine, completamente al buio a causa di un blackout temporaneo. In quel momento ho avvertito forte l’invito a proseguire il cammino nonostante il buio mi cogliesse impreparata, la sensazione di incertezza e titubanza si è subito trasformata in un forte impulso a investigare questa insolita condizione (nuova, o solamente dimenticata). La familiarità della strada ha sicuramente contribuito ad eliminare ogni indugio a percorrerla, dissipando la percezione del pericolo, e aiutandomi a godere, invece, della sensazione positiva di quiete. Ho avvertito forte il contatto con la natura e la positività di una esperienza rincuorante, nonostante fossi immersa in volumetrie di cemento, sentissi l'asfalto sotto i piedi e mi sfiorassero le automobili. 

Una sensazione molto simile l’ho provata, già adulta, quando ho avuto la mia prima esperienza con la nebbia. L’impossibilità di percepire i dettagli delle forme degli oggetti e l’essere pervasa da una luce diffusa che non restituisce alcuna profondità del campo visivo, estranea dal mondo esterno e induce ad un dialogo con se stessi.

STrade nella nebbia

STrade nella nebbia

La scienza può dare delle spiegazioni a questo fenomeno di empatia. Durante la fase preliminare all’addormentamento, o anche quella del sogno ad occhi aperti, l'elettroencefalografia (EEG), che registra l'attività elettrica dell'encefalo, rileva un’accentuata attività delle onde alfa in concomitanza con un certo torpore visivo. Quindi possiamo assumere che, viceversa, creando il torpore nella visione si possano innescare stati mentali pseudo onirici. La spiegazione potrebbe essere nel fatto che una scarsa restituzione dei dettagli, delle sagome e del contrasto, che una luce diffusa su tutto il nostro campo visivo determina, ci porta in una dimensione che non aderisce alla realtà come normalmente la percepiamo, perché non è tipica dell’esperienza quotidiana. L’esperienza visiva nella nebbia diurna non è né la visione scotopica - perché non si tratta di buio - né consente la visione centrale, capace di restituire i dettagli ed i colori delle cose. Tutto viene quindi sfumato in una dimensione atemporale e aspaziale che induce inevitabilmente ad una meditativa introspezione, ancora più di quanto possa fare il buio.

La differenza tra l’esperienza al buio e con la nebbia sta nel fatto che nel primo caso si può contare su minimi riferimenti dello spazio: un’illuminazione di soli 0,006 Lux, che è quella tipica della notte con cielo stellato, ci permette, attraverso la lenta ma efficace attivazione dei bastoncelli, di percepire le sagome, i contorni, i movimenti e quindi leggere e decodificare la cinematica corporea delle persone intorno e tradurle in intenzioni e in emozioni. Il nostro essere animali sociali ci predispone all’interpretazione dei set visivi, in una sorta di elaborazione simultanea dei rilevatori di caratteristiche (elementi oggettivi della scena visiva) e della corteccia visiva associativa che combina la scena ai ricordi e alle conoscenze.

La illuminazione urbana, alla luce delle conoscenze psicofisiologiche, deve saper promuovere l’uso positivo dell’oscurità come strumento progettuale e cogliere l’opportunità di saper gestire i messaggi reali e mediarli con quelli indotti e sussurrati per restituire un set visivo quanto più rassicurante possibile, e trasformare l’esperienza dell’oscurità da unicamente minacciosa a una positiva occasione di rilassante dialogo con se stessi.

Non dobbiamo avere paura del buio e non solo perché ne abbiamo bisogno per addormentarci e continuamente allineare il nostro ritmo circadiano, ma anche perché disponiamo degli strumenti adatti per relazionarci con esso. Abbiamo bisogno del buio per non lasciare che parti del nostro corpo si atrofizzino e soprattutto per scrutare molto di più fuori e dentro di noi.

"Affordance" in architettura

Affordance significa invito

Esiste una forte analogia tra il design degli oggetti ed il design degli spazi, nonostante spesso i due campi di applicazione sembrano appartenere a due modi molto distanti tra loro, a causa di dinamiche economiche e di mercato molto diversi.

Affaccio sul golfo, Certosa San MArtino- NApoli . foto n. de pisapia

Affaccio sul golfo, Certosa San MArtino- NApoli . foto n. de pisapia

 Tale analogia si evidenzia attraverso il concetto di affordance..

Affordance significa invito, cioè  la capacità di capire la relazione che c'è tra l'utente e l'oggetto, nel caso del design del prodotto, oppure tra l'utente e lo spazio, nel caso del design dello spazio.

Nonostante il termine sia diffuso soprattutto nell’ambito del design industriale, il concetto si forma e si sviluppa in considerazione del rapporto tra gli esseri viventi e la natura. Un ciglio di una roccia che si sporge su uno strapiombo ha una sua specifica affordance per noi esseri umani: essa ci comunica di stare attenti e di fermarci, e di assumere determinante posture che non ci mettano a rischio di vita. Per un uccello lo stesso luogo può essere un invito a spiccare il volo per perlustrare la vallata che è oltre.

Il concetto di affordance è costantemente applicato allo spazio costruito in scala architettonica, ma non in modo pienamente consapevole. Esso si applica in modo automatico, attraverso il  perpetrarsi di tipologie validate e confermate nel tempo, a volte con profonda cognizione dei significati insiti,  altre volte (e questo è più il caso degli ultimi decenni) imposte dalle regole di mercato e di tendenze che poco hanno a che fare con le considerazioni sull’effettiva efficacia che i vari fattori spaziali possano avere per la nostra esperienza legata al luogo.  Spesso viene a mancare la consapevolezza del profondo legame che unisce lo spazio alla sua destinazione di uso, la metodologia progettuale rivela tale importante omissione con lo scarso successo dello spazio stesso, in termini di qualità di esperienza di vita e quindi anche di qualità estetica.

Eppure prima che i recenti sistemi di indagine e monitoraggio delle nostre reazioni cerebrali fossero disponibili,  grandi architetti del movimento moderno hanno approfondito queste tematiche e hanno avuto geniali intuizioni. Un esempio sono gli interni di Fallingwater, con i corridoi molto stretti e bassi che collegano le camere della zona notte, le cui dimensioni ridotte rispetto al resto della casa non possono lasciare indifferenti. Tale scelta è il  risultato di un profonda riflessione sulle sensazioni effimere ma profonde che caratterizzano il movimento nel luogo domestico e quindi il modo di percepire e vivere lo stesso, al di là delle considerazioni strettamente fisiche legate all’accessibilità (importantissime ma non le uniche a decretare la buona funzionalità).

ingresso LAtrina a 45 gradi in villa San MArco di Stabia .NA. foto G. Ascione

ingresso LAtrina a 45 gradi in villa San MArco di Stabia .NA. foto G. Ascione

E’ probabile che tale approccio abbia avuto a sua volta influenze dall’architettura greco-romana, nelle scelte progettuali adottate nelle ville fuori città (Villa San Marco di Castellammare di Stabia –nella foto), le quali adottano schemi più liberi, planimetrie e volumetrie fluide a risolvere e rispondere a esigenze molto particolari e più sofisticate. Anche qui infatti si ricorre a dilatazioni e restringimenti dei volumi, geometrie innovative, che rompono con le tendenze e le regole dell’epoca, e sembrano soddisfare egregiamente le aspettative di chi le vive, inviando messaggi sulle azioni da svolgere e sugli stati mentali propedeutici a tali azioni.

Quali indagini affronterebbero gli architetti del passato recente e trapassato se fossero attivi oggi ? Come accoglierebbero la disponibilità di strumenti scientifici capaci di misurare le reazioni psicologiche ed emozionali degli utenti di uno spazio progettato?  Quanti nuovi significati avrebbero creato e validato?

Il concetto di affordance rappresenta un valido strumento per giocare con gli spazi e creare esperienze del luogo molto ricche, perché i suggerimenti e gli inviti a compiere determinati gesti e azioni possono essere reali, ingannevoli, ambigui. L’importante è sapere usare bene il linguaggio spaziale per riuscire in ogni singolo scopo, premesso che la scelta degli scopi sia opportuna, rispettosa del benessere di chi dovrà occupare lo spazio e fatta  in piena libertà rispetto alle tendenze stilistiche e tecnologiche.

La distinzione tra spazio pubblico e privato è fondamentale per la buona riuscita del progetto  e nell’applicazione di questo approccio alternativo. Basti pensare al fattore “navigazione” che, se nel privato induce ad una familiarità del luogo raggiungibile dopo un minimo sforzo mnemonico iniziale, nell’ambito pubblico è causa di stress poiché il rapporto non continuativo con lo spazio non dà tempo alla memorizzazione. In tal caso l’uso e il dosaggio dei segni e significati del progetto sono altri elementi necessari, perché sono un indizio ulteriore al nostro processo cognitivo di interiorizzazione dello spazio. Una maggiore conoscenza e padronanza nell’orientamento si traduce in una maggiore rilassatezza nell’approccio al luogo e di conseguenza un maggiore apprezzamento dello stesso.

foto n. de pisapia

foto n. de pisapia

Non è forse questo che si chiede ai nuovi spazi urbani ?

E non sono anche tutti i fattori sopra considerati elementi necessari a dare credibilità e attrattiva ad un luogo nel lungo termine, dopo che gi effetti di meraviglia e di stupore  - anch’essi importanti e tipici del primo impatto -  si estinguono ?  







L'intelligenza naturale e la bellezza artificiale.

La presentazione TED del 2012 di Machael Hansmeyer sulle potenzialità del disegno digitale e programmato  (CAD)  ci lascia ancora oggi  in bilico, in uno  stupore che non sa se trasformarsi in meraviglia , scetticismo o speranza. Dopo alcuni anni possiamo appurare  che la stampa 3d  sia diventata una realtà che rende la riproduzione di forme complesse facile ed immediata. Anche l'intelligenza artificiale, ritornata in auge  grazie a  reinventati algoritmi di apprendimento,  rinnova la fiducia nella sua capacità di garantire prestazioni prima  di pertinenza esclusiva dell’intelligenza umana.  Ma possiamo considerare la stessa intelligenza umana priva di limiti? Essa  non è tuttora  capace di comprendere a fondo i segreti della natura e replicarne la casualità della sua evoluzione, l'armonia e la misura delle cose.  Nonostante ci siano a monte le più nobili intenzioni accade spesso che la progettazione di ambienti complessi e iper-performanti  offra, all'utente, esperienze negative e stressanti. Gli ambienti naturali vincono sempre e comunque su quelli artificiali: come mai?

Michael Hansmeyer crea algoritmi che generano forme affascinanti, con forme e sfaccettature che nessun uomo potrebbe disegnare a mano. Ma queste forme sono realizzabili e potrebbero rivoluzionare il modo in cui noi concepiamo le forme architettoniche.

Se ci fermiamo al fotogramma del minuto 3.50 del video ci troviamo davanti al tipico esempio di mostruosità generata da un algoritmo "andato fuori controllo".  Hansmeyer parla di un effetto visivo riconducibile a quello che rappresenta il rumore nel mondo uditivo. In poche parole si tratta di un processo errato che in natura si concluderebbe con  un aborto del processo stesso. 

La nostra biologia , il nostro essere parte di un ecosistema, stabilisce le regole del nostro rapporto con l'ambiente in cui viviamo. Si tratta di regole che sono  biologiche e anche estetiche, etiche  e sociali. Se una nostra sensazione sia positiva o negativa viene stabilito da una legge di natura che risponde alla stessa che ha forgiato noi esseri umani. La biofilia è una filosofia che sostiene questa legge di natura, che per quanto inafferrabile a tratti, è alla base dell'ipotesi biofilica e del design biofilico,  un criterio di progettazione che analizza e verifica gli aspetti naturali nell'ambiente antropizzato  con il fine di migliorare la qualità dello stesso e della nostra vita. 

Nicola Salingaros, matematico, è un accanito sostenitore del design biofilico ed ha molto da dire su quello che viene stabilita come  giusta misura e armonia dell'effetto estetico delle cose.  Salingaros usa come rifermento il frattale ed il suo grado di complessità , suggerendo  i valori entro i quali ci si sentirebbe al sicuro da stimolazioni percettive, tanto da farle risultare né monotone, e quindi poco stimolanti, né fastidiose e quindi stressanti. Un frattale codifica strutture geometriche su diversi livelli e non ci sono preferenze sulle scale. 

colonne generate da algoritmi  e stampate

colonne generate da algoritmi  e stampate

Tutti i tessuti organici hanno strutture geometriche di base che si ripropongono in modo similare tra loro e legano tra di loro gli umani, gli animali, le piante e quindi i paesaggi. In questa sorta di similitudine si stabilisce tra tutti gli elementi naturali una sorta di "Comunicazione Subliminale", cioè un'attrazione verso i segni densi di significato che risultano  in un senso di piacevolezza e di benessere diffuso senza esserne consapevoli. Se questo concetto risulta intuibile  con l'esperienza visiva, va fatto lo sforzo di applicare lo stesso a tutti gli altri sensi, dal momento che il principio non cambia. Possiamo quindi creare categorie di suoni, tessiture, odori che siano  legate ad esperienze piacevoli, che incontrino la nostra positiva predisposizione. 

A questo punto, ritornando alla performance della generazione algoritmica della colonna mostrata nel video, viene da porsi la seguente domanda: Come si può controllare e gestire il processo creativo artificiale per ottenere un esito finale che possa essere definito non solo universalmente accettabile, ma anche equo, opportuno, conveniente ?   Ma soprattutto c'è da chiedersi se il nostro senso di bello e di armonico  possa evolvere nel tempo in quella sorta di evoluzione epigenetica che sicuramente è già in atto, e che ci potrebbe adattare ad un nuovo ordine delle cose ed educarci ad esperienze spaziali non necessariamente riconducibili ad archetipi naturali, ma controllati da un'intelligenza non più umana.   

Queste considerazioni  creano un'impasse, ma una riflessione su come sono evoluti gli strumenti tecnologici negli ultimi millenni potrebbe aiutare ad uscirne fuori. Il disegno e la tecnica costruttiva hanno sempre rappresentato forme  creative che delegavano l'esecuzione a strumentazioni esterne al nostro corpo, gradatamente sempre più distanti da esso, dalla matita al CAD, dal martello alla stampante. Eppure altrettanto gradualmente il nostro cervello si è adattato al nuovo creare e al nuovo creato con piccoli traumi che sono stati molto bene recuperati.

HAL nel film "2001 Odissea nello spazio" 

HAL nel film "2001 Odissea nello spazio" 

C'è un'atavica  paura della possibile  perdita di controllo sulla macchina, espresso attraverso varie forme di arte come la letteratura ed il cinema. Il film cult  "2001 Odissea nello spazio" è una  favola apocalittica sul destino dell'umanità, la cui  identità risulta diversa dal resto della natura. La storia parla di una missione su Giove in cui un computer (HAL)  si trasforma da strumento affidabile di supporto a  terribile nemico dell'ultimo uomo superstite, e cerca di toccare problematiche antichissime relativa all'identità della natura umana, al suo destino, e al ruolo della conoscenza e della tecnica. La favola però si conclude bene, e non perché la mente umana riesca a sedare la ribellione e l'intraprendenza di quella  artificiale, ma  perché  a monte di questo apparente conflitto uomo-macchina si scopre esserci la volontà dell'uomo stesso (dei responsabili della missione) a stabilire delle priorità sbagliate, in conflitto con la propria  sopravvivenza.   

Gli spazi lavorativi sono cambiati ...di nuovo.

strip

 A partire dalla metà del secolo scorso  i luoghi di lavoro sono cambiati radicalmente, e non  perché sia cambiato il tipo di lavoro, ma perché sono cambiati gli strumenti  e si sta facendo luce sugli effetti  dell'ambiente costruito sul benessere e sulla produttività.

Una volta esistevano uffici suddivisi in più stanze fisicamente separate tra di loro, ciascuna ospitante un numero esiguo di impiegati. Poi  l'avvento di grandi corporazioni ha generato delle realtà lavorative di enorme scala e  ha sviluppato il concept di spazi aperti organizzati con cubicoli distribuiti secondo geometrie più o meno rigide .

Questa configurazione riusciva ad assicurare un discreto livello di riservatezza, ma, con l'avvento dei grandi spazi privi di ogni separazione, quest'ultima è completamente scomparsa. Stiamo parlando di circa venti anni fa, quando alcuni studi di ricerca avevano dimostrato l'importanza di essere connessi l'uno con l'altro, per creare un modello interno dell'esperienza collettiva. L'isolamento non aiutava le persone a realizzare ciò che gruppi di persone di talento riuscivano a fare quando mettevano in comune le conoscenze, i talenti, le intuizioni di tutti. Ma esagerare in questa direzione  è risultato deleterio.

Nonostante il cervello sia un organo sociale ci sono volte in cui la collaborazione  chiaramente si oppone al buon funzionalmento del cervello. Le ragioni sono diverse. Pensiamo alle emozioni negative del singolo e alla facilità con cui possono diffondersi. Consideriamo quanto le personalità più deboli possano sentirsi sopraffatte da quelle dominanti. E cosa dire poi del problema sulla privacy, già evidente nelle soluzioni degli anni addietro?

scena tratta dal film "Tutti gli uomini del presidente" del 1976.

scena tratta dal film "Tutti gli uomini del presidente" del 1976.

Alla luce di queste analisi  si spiega come mai gli uffici stiano cambiando di nuovo, e non solo per risolvere il problema di uno schema planimetrico indifferenziato, ma per essere allineati con i recenti risultati della psicologia comportamentale, sociale e della scienze cognitive.

La creatività è un  requisito che aiuta a trovare soluzioni fuori dal coro e se si vuole garantire alle persone creative - e spesso introverse - di essere libere da interruzioni o dissipazioni di energia su questioni poco interessanti e per niente correlate al lavoro, sarebbe consigliabile attrezzare lo spazio con un adeguato numero  postazioni individuali e isolate. 

Succede quindi che, mentre Il precedente concept di ufficio si basava su una tecnologia all'avanguardia che tendeva a legare tutto insieme, ora le tecnologie lavorano in direzione opposta. Nuove soluzioni consentono un controllo preciso della propagazione del suono e della luce creando  delimitazioni spaziali laddove non esistono separazioni fisiche. Inoltre la comunicazione wireless  è molto migliorata, e non solo rende possibile sistemi sinergici attraverso la connettività IoT , ma rende possibile  il lavoro a distanza e permette agli impiegati  di partecipare alle riunioni mentre sono a casa o su un treno. Questa apertura alla mobilità  mette in discussione anche il dimensionamento di un ufficio e rende concepibile una superficie di occupazione inferiore ai valori standard di riferimento. 

Ci sono aziende che stanno riducendo gli spazi  in considerazione di una superficie pro-capite e  di un numero di postazioni  inferiori agli standard dettati dal numero di dipendenti. Questo riduce gli  sprechi dei costi per l'affitto dovuto al sottoutilizzo dei posti disponibili. La questione economica legata al mercato immobiliare  è molto sentita specialmente nelle grandi metropoli come New York. Qui gli affitti raggiungono cifre da capogiro e costringono molti ad adottare soluzioni creative, come la collaborazione trasversale tra competenze,  e addirittura il baratto dei servizi offerti. Si tratta  di strategie per aiutare sia le piccole che le grandi imprese a gestire situazioni economiche instabili, quali quelle legate all'avvio di una nuova attività (per la prima) o quelle che vedono affrontare periodi di crisi economica (per la seconda).

TOMOKO, FROM:  HTTP://WWW.MOTTOWASABI.COM/

Da considerare inoltre le soluzioni "open"  del design d'arredo e dell'accessoristica, le quali richiedono  una partecipazione e interazione con l'utente finale. Questi è tirato in ballo nella caratterizzazione del prodotto attraverso la scelta del colore, dell'assemblaggio  e addirittura del tipo di  utilizzo. SI tratta di una  modalità progettuale flessibile che permette a tutti di partecipare attivamente alla definizione dell'identità  dello spazio e del marchio per cui si lavora. La flessibilità diventa  un tema  importante  non solo per sposare il concetto di spazio fluente, dinamico e partecipativo, ma anche per favorire una organizzazione più democratica e meno discriminatoria tra le diverse fasce impiegatizie. Laddove le postazioni non sono più fisse, ma interscambiabili, può accadere che la propria scrivania diventi  la scrivania di qualcun altro, e viceversa. I dipendenti coinvolti nella creazione del proprio ambiente di lavoro e nella sua gestione meno gerarchica hanno maggiori probabilità di essere felici, in quanto  vivono il loro ufficio come un ambiente domestico che li aiuta a identificarsi con la cultura dell'organizzazione e sentirsi liberi dagli assoggettamenti a regole poco esplicite e quindi frustranti.

Immagine da linkedin

Immagine da linkedin

Il buonumore è un requisito per essere più produttivi e, sebbene questa sia una qualità molto difficile da misurare, essa influenza l'efficienza e l'efficacia di una squadra di lavoro (intellettuale e non). L'architettura  contribuisce non poco all'ottenimento di questi obiettivi, ma deve assolvere ad un compito delicato di mediazione con la reale  politica aziendale. Nessun concetto spaziale può ottenere risultati positivi in termini di benessere e produttività se non dimostra coerenza e allineamento con le direttive dall'alto. 

Comment

Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)

Le camminate percettive come strumento di pianificazione

Locandina dell' itinerario in bici a Trento  (immagine di giusi Ascione) 

Locandina dell' itinerario in bici a Trento  (immagine di giusi Ascione) 

La camminata urbana, o di quartiere, è una pratica che si sta diffondendo negli ultimi anni in diversi centri d’Italia, ma le finalità e le aspettative sono diverse a seconda dell'ente o persona che ne è promotore. Certamente alla base vi è l'esigenza dei residenti di una più approfondita conoscenza del territorio, sia perché ci si vuole  ri-appropriare dello stesso, in cerca di una perduta identità sociale e culturale, sia perché si è in cerca di una chiave di lettura che aiuti nelle strategie d’intervento.  E' un dato di fatto  che gli spazi urbani non sono vissuti adeguatamente: la sosta in piazza fine a se stessa è un evento raro e  per pochi, e perfino gli adolescenti non rispondono più al richiamo del  rituale "incontro al solito posto".   La città evolve spesso in modo distaccato rispetto alle  esigenze del cittadino, e la serialità degli  eventi è tale  da amplificare inesorabilmente alcuni effetti negativi, quali l'aumento della percezione del rischio, il fallimento delle attività commerciali e la svalutazione degli immobili.

Itinerario di Trento:  asse Albere-trePortoni (img sandro aita)

Itinerario di Trento:  asse Albere-trePortoni (img sandro aita)

Il cittadino sente la necessità di conoscere meglio il proprio territorio e di identificarsi con esso, e questo si esprime con diverse modalità di approccio. Che si tratti di iniziative di percorsi podistici, con finalità più ludico-sportive, o che si tratti di incontri per facilitare il dialogo tra generazioni, classi sociali  e professionali diverse, l'obbiettivo finale  è comunque quello di generare strategie politiche e proposte condivise per la gestione del futuro della città e incrementare il senso di appartenenza dei cittadini. L'esperienza diretta del luogo, attraverso il percorso materiale dello spazio (a piedi o in bici) diventa il miglior strumento di analisi e di progettazione, poiché facilita il reset  dei preconcetti  di ordine politico, sociale e antropologico, e veicola proposte di intervento più creative ed originali.

Il cittadino medio ha ormai sviluppato una forte capacità critica sugli aspetti legati alla vita urbana: una più democratica informatizzazione ma soprattutto l'esperienza diretta e continuata delle “cose urbane”, ha conferito allo stesso nuove competenze al punto da renderlo  una risorsa e uno strumento indispensabile nella pianificazione territoriale.

Quella che ormai comunemente viene definita "progettazione partecipata" però non riesce da sola a risolvere la complessità delle problematiche da affrontare. C'è dell'altro. Esistono dei fattori che interferiscono nell'evoluzione e nella caratterizzazione di un luogo che sono evanescenti, inafferrabili, difficilmente individuabili: , perché troppo “sottili” per essere percepiti con strumenti ordinari della “tecnica” urbanistica e architettonica:  alcune zone di città, apparentemente funzionali, sono spesso percepite come meno belle, meno sicure e meno sane, e non si riesce a capirne il motivo. Si parla di segni deboli , che non sono facilente rilevabili e riconoscibili se non da occhi esperti. Essi condizionano profondamente il nostro comportamento, modificano la nostra percezione della realtà concreta (oggettiva) e della realtà mentale (soggettiva).   

 Neuroarchitectura, in collaborazione con l'Ordine degli Architetti di Trento, ha organizzato lo scorso 17 ottobre  un tour in bicicletta dal titolo "Alla ricerca dei segni deboli della città",  per  uno sguardo attento  che aiutasse a cogliere questi segnali nascosti ed effimeri.

Itinerario di Trento:  i partecipanti con lo  sponsor "Prestabici" al punto di partenza.

Itinerario di Trento:  i partecipanti con lo  sponsor "Prestabici" al punto di partenza.

Questa chiave di lettura alternativa  non è  nuova: già nel 1964 Kevin Lynch scrive "L'immagine della città", e  parla di una nostra percezione dello spazio urbano non  distinta, ma parziale, frammentaria e mista ad altre sensazioni. La sua leggibilità tiene conto delle sensazioni "di colore, di forma, di movimento, di luce, dell'udito, del tatto, della cinestesia, della percezione di gravità, perfino di forze di campi elettrici e magnetici...".  Le linee guida  del teorico  americano sono state affiancate dalle più recenti conoscenze acquisite in campo neuroscientifico: le scienze cognitive, la neurospicologia e la neurofisiologia, assieme alla psicologia ambientale,  analizzano nel dettaglio gli aspetti percettivi, cognitivi ed emozionali, e caricano di significato fattori ambientali che sono stati fino ad ora ignorati, o considerati privi di efficacia concreta. Questi stimoli multisensoriali, che si traducono in modifiche comportamentali sia a livello sociale che individuale, trasformano la nostra esperienza del luogo e possono essere all'origine dei successi e/o degli insuccessi di alcune strategie urbane ed architettoniche, per quanto riguarda sia la qualità della vita dei residenti, sia le dinamiche commerciali e turistico-sociali in senso lato.

Questo primissimo tentativo locale di lettura "psicologica" del tessuto urbano ha riscontrato una risposta forte dei partecipanti. L'omogeneità del gruppo (si è trattato di una passeggiata in bici tra soli architetti) ha consentito un linguaggio unico, utile in questa prima esperienza esplorativa, ma che ha limitato, anche per il tempo ridotto, una lettura più libera e più diversificata, lasciando ai partecipanti il desiderio di replicare l'esperienza e consentire  un confronto più approfondito su un tema così innovativo e complesso che coinvolge anche le neuroscienze.

Diverse la reazioni registrate in un'altra passeggiata, che si è svolta in Villa Lagarina a inizio novembre, in occasione della presentazione del volume n° 18 dei “Quaderni del Borgantico” (**), curato dall’omonima associazione culturale. Questa volta il contesto ambientale era completamente diverso ed i  partecipanti,  eterogenei per diversa provenienza geografica e professionale, sono stati guidati, assieme all’architetto Sandro Aita (organizzatore del tour nell’antico borgo lagarino), lungo un percorso che ricalcava il tracciato storico ben conservato, dove l'architettura, assolutamente organica ed espressiva del luogo, ha espresso evidenti e chiari richiami ad una vita sociale ormai scomparsa ma ricca di suggestioni e stimoli percettivi. E' stata una bella occasione rilassata per "ascoltare" e toccare con mano quello che le città moderne spesso non riescono ad offrire, ma anche avere piena consapevolezza sensoriale di fenomeni che comunque agiscono a livello corporeo.

Certamente è più facile creare un ambiente coerente, equilibrato quando ci si muove in un mondo semplice da gestire, se non altro per le ridotte dimensioni demografiche. In questo caso  il “genius loci”, (quello che  C. Norbert  Schulz individua, nel suo saggio fondamentale, come caratteristica specifica e originale degli ambienti di vita urbana), viene più facilmente e meglio espresso.

Itinerario di Villa Lagarina , il Borgo Antico  (immagine di sandro aita)

Itinerario di Villa Lagarina , il Borgo Antico  (immagine di sandro aita)

 E' anche strano però che la pianificazione contemporanea (e la progettazione in genere) non sfrutti al massimo le sue reali potenzialità, e trascuri strumenti di indagine che potrebbero aiutare a capire meglio e prevedere le nostre reazioni comportamentali, e avere un potere anticipatore sugli scenari futuri, per definire un più corretto percorso di sviluppo della città. 

Le due esperienze sopra citate di “camminata percettiva” offrono un primo modello di esplorazione, certo inusuale, che alimenta una “democrazia partecipativa” dal basso, e che raccoglie stimoli e conoscenze utili per la crescita e la consapevolezza del senso di appartenenza ad un luogo.

Per concludere si riportano di seguito le parole che lo stesso Norbert Schulz, citando il suo predecessore Lynch, adopera nel suo saggio fondamentale “Genius Loci, paesaggio, ambiente, architettura”, del 1979:

una buona immagine ambientale dà al suo possessore un senso di profonda sicurezza emotiva”.
  • Si ringrazia l'architetto Sandro Aita per il suo prezioso contributo (contenuti e immagini).

Nota (**) L'articolo "L’antico Borgo di Villa. Silenzi, sussurri e grida di un cammino urbano che resiste e risuona nel tempo" è a pag 71.

 

 

 

Una risposta per Gropius:There will be a science of Design

C'è un frenetico turbinio di iniziative  sul tema del design e sulla linea di sviluppo che esso dovrà percorrere. Conferenze, eventi celebrativi e bandi di gara si propongo quasi in simultanea e spesso ignorandosi fra di loro: essi provocano una sorta di dispersione energetica che a volte intralcia la collaborazione tra le diverse discipline, o tra i vari gruppi di lavoro interdisciplinari, forse perché si lavora per evidenziare i punti di divergenza piuttosto che quelli di contatto, forse perchè c'è ancora confusione su quali debbano essere i riferimenti scientifici.

 

Tra gli appuntamenti del primo semestre di quest'anno troviamo Londra, dove si è da poco conclusa Conscious Cities, mentre a San Diego l'ANFA apre a nuovi studi di ricerca da presentare alla  International Conference del prossimo settembre. Seattle sarà presto sede di una summit che sigilla un connubio tra il Living Building Challenge e l'istituto di ricerca Terrapin, baluardo del design biofilico, proprio mentre  Rick Fedrizzi, forse cosciente dei limiti che i crediti LEED presentano sulla salvaguardia del benessere dell'utenza, apre le porte al WELL Building Standard.

Esistono poi altre iniziative di ricerca globale e trasversale, quale il progetto di neuroarchitettura ROOMS  (lo IUAV tra i suoi principali partners) che cerca di superare gli ostacoli economici e burocratici di una partecipazione aperta a tutti ricorrendo ad un modello originale dicrowdfunding.  

Quello che emerge da questo fenomeno è la necessità di effettuare un cambio di marcia nel mondo della progettazione e dello stesso modo di fare ricerca. Quest'ultima non è più prerogativa unica delle accademie, ma inizia ad essere fagocitata dal mondo imprenditoriale e dal suo appetito per investimenti intelligenti che abbiano fini"etici" piuttosto che puramente di profitto. La ricerca è disorientata e allo stesso tempo crea disorientamento in coloro che finora  hanno trovato  un riferimento fermo e sicuro. Le università hanno capito bene che aria tira e, pur cercando di adeguarsi, procedono con andatura da elefante peril timore di contaminarsi e perdere la propria identità e purezza.

Ed ecco che arriva l'onda rivoluzionaria, in realtà già in atto da qualche anno, attualmente cavalcata dal MIT di Boston con il suo" Journal Of Design and Science" (fondato già nel 1985), con l'idea di cambiare radicalmente il modo di legittimare la ricerca. Un 'apertura più democratica al confronto scientifico che si basa sul "peer to peer review", cioè che si svincola dall'analisi lenta e cattedratica degli anonimi revisori nominati di volta in volta (peer review), ma si espone alle modifiche di chiunque creda di avere qualcosa di interessante da dire.

C'è il rischio di una banalizzazione dei problemi affrontati, oppure siamo di fronte l'opportunità di ascoltare validiopinioni da chi è rimasto tagliato fuoridal confronto a causa di un sistema arrugginito e anche , a volte, corrotto ?

Nel campo del design (dando per scontato che si tratti già di progettazione sostenibile e umano-centrica), tale atteggiamento inclusivo è assolutamente necessario oltre che auspicabile. Un "antidisciplinarità" contro la interdisciplinarità, per usare le stesse parole di Jui Ito, direttore del MIT Media Lab, può essere la giusta via per poter coinvolgere simultaneamente  attori importanti di diversa estrazione culturale, i quali finalmente uscirebbero dall'ombra della critica sterile o dell'intervento postumo e per questo vano. Perché mai escludere categorie che sappiamo bene essere importanti contribuenti nella modellazione e caratterizzazione dei nostri ambienti quali gli psicologi, filosofi, artisti ?

Comment

Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)

Casa Dolce Casa

E' uscito recentemente il libro del neuro-antropologo John S.Allen "Home - How Habitat made us Human" (vedi foto) che ci spiega quanto il concetto di casa, nel senso proprio di focolare domestico, sia importante per la nostra formazione culturale e psicologica.

Copertina del Libro 

Copertina del Libro 

La casa nasce anche come soluzione alla necessità di rilassamento, alla ricerca del benessere, e non solo come riparo dagli eventi meteorologici e dalle minacce delle altre specie. Essa diventa luogo indispensabile per la formazione della nostra personalità nella fase adolescenziale, in stretta dipendenza dalla nostra cultura. Esserne privato potrebbe avere effetti sui più profondi meccanismi cognitivi, fino ad essere causa di malattie mentali. Gli homeless contano infatti un'alta incidenza di schizofrenia all'interno della loro categoria ed anche le emigrazioni di massa sono causa di un violento sradicamento dalle proprie abitudini. Ma a parte questi due casi estremi, quali considerazioni utili possiamo fare a riguardo della nostra realtà occidentale in cui "l'emergenza casa" è quasi del tutto risolta?
In realtà il problema legato alla residenza esiste ancora, ma è di tipo qualitativo, ed è legato all'arricchimento del significato di benessere associato alla casa. Godere di buona salute fisica e contare su una sicurezza economica ed occupazionale non bastano: la crisi scatta nel momento in cui si avverte il bisogno di migliorare il proprio equilibrio spirituale, sociale e cognitivo. La casa deve tenere conto di questa nuove esigenze e una progettazione "partecipata" ed "integrata" può offrire una risposta.

Grafico di G. Ascione

Grafico di G. Ascione

Una volta era semplice interpretare le diverse condizioni geografiche e culturali che portavano a costruire un igloo piuttosto che una palafitta,poi col tempo l'idea di comfort si è imposta fortemente ed ha preteso  competenze sempre più specifiche. Oggi ci troviamo di fronte ad un nuovo punto di svolta: il senso del "piacere" soppianta quello legato al "comfort".  

Grafico di G. Ascione

Grafico di G. Ascione

Esistono nuove esigenze, aumentano i requisiti per uno spazio costruito, e le competenze delle figure professionali tradizionali non bastano. Gli strumenti per rispondere in modo affidabile alle nuove esigenze sugli spazi costruiti  esistono, essi sono forniti da diversi campi interdisciplinari già menzionati negli articoli precedenti(neuropsicologia,scienze cognitive, etc.).

La figura dell'architetto, impegnata già da molti decenni a ridefinire continuamente il suo ruolo all'interno di  una macchina costruttiva sempre più complessa, soffre di una crisi di identità. 

Ora più che mai sarebbe il momento giusto per definirne un nuovo percorso formativo: quello del neuro-architetto

 

Comment

Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)

Cosa si intende per Neuroscienze e Architettura ?

foto di Nicola De Pisapia

foto di Nicola De Pisapia

L’ambiente costruito influenza le nostre percezioni, le nostre emozioni, le nostre capacità d’interazione, i nostri sogni e le nostre personalità. Tutti questo processi - di cui gli architetti ne intuiscono i meccanismi – trovano il loro substrato ultimo nel nostro sistema nervoso. Le neuroscienze legano la nostra esperienza quotidiana alle percezioni multisensoriali ed al modo con cui esse si trasformano in emozioni, empatie e comportamenti complessi. Qual è il motivo per cui figure simmetriche risultano piacevoli, qual è il meccanismo che ci rende estasiati di fronte ad una volta decorata, come mai una certa tonalità di luce ci rende più propensi a socializzare oppure ad isolarci? Molte sono le domande d’interesse architettonico a cui le neuroscienze cominciano a dare risposte, ma tante ancora sono quelle che non hanno una spiegazione.

L'architettura è stata da sempre considerata una disciplina tesa a rendere la vita degli individui più confortevole, rispondendo alle loro esigenze. La sua utilità ha rappresentato la caratteristica essenziale, ma quando le speculazioni sul tema sono incominciate a diventare più sofisticate, sono state pretese prestazioni più complesse per soddisfare esigenze spirituali oltre fisiche di semplice dimora.

I risultati delle ricerche neuroscientifiche degli ultimi decenni hanno permesso di entrare nei meandri dei processi cognitivi e di conoscere i meccanismi neuronali che legano i nostri sensi ai vari stati emotivi, creativi, cognitivi, e operativi del nostro cervello.

La complessità derivante sia dalla multidisciplinarietà che dalla giovane età di questo campo di ricerca necessita di un atteggiamento prudente e collaborativo. Non esiste un nuovo decalogo fisso e universale per il costruito, ma esiste un contesto in cui s’interviene e si cerca di risolvere ed analizzare di volta in volta le esigenze degli occupanti e della committenza, in una visione dello spazio inteso come strumento attivo e proattivo nei confronti delle attività che si svolgono in esso. 

Comment

Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)