Zoom-in o Zoom-Out. Come approcciarsi alla neuroarchitettura?
/Gli articoli scientifici sugli aspetti psicologici della architettura sono in grande aumento, specialmente se si considerano gli ultimi 5 anni. Tendenzialmente si assiste ad una proliferazione di ricerche che analizzano aspetti molto specifici come, per esempio, quelle che si dedicano alla relazione tra diverse forme geometriche ed i livelli di stress o ansia, oppure quelle che indagano l’influenza dei diversi parametri luminosi sul stato di allerta.
Piccoli frammenti di un puzzle complesso che è quello che rappresenta l’interazione delle persone nell’ambiente costruito. Ma d’altra parte come pretendere di rivoluzionare l’approccio al design se non si fa riferimento all’evidenza scientifica, la cui attendibilità è legata all’osservazione di aspetti considerati isolatamente, pena la invalidazione del rapporto causa effetto del fenomeno osservato?
Esistono punti di vista che ritengono inefficace un tipo di approccio unicamente dettagliato e specifico, come quello del prof. Anjan Chatterjee, che nel suo articolo suggerisce un livello maggiore di astrazione per potere tenere a freno la considerazione di tante piccole variabili ingombranti, e quindi propone una maggiore attenzione sulle risposte psicologiche generiche delle persone all'ambiente. Il suo riferimento principale è una triade architettonica che consiste in 1) coerenza – quanto appare organizzato e leggibile uno spazio, 2) fascino – quanto complessa e ricca di informazioni è l’esperienza dello spazio, e 3) familiarità – quanto lo spazio genera un senso di appartenenza e comfort.
Una categorizzazione che sembrerebbe chiara e risolutrice in prima istanza, ma che sembra volgere lo sguardo indietro (e non mi riferisco alla triade vitruviana), verso le premesse di circa quaranta anni fa, quando si era agli albori della psicologia ambientale. All’epoca però la tendenza spingeva in direzione opposta, cioè si auspicava una sperimentazione rigorosa che producesse evidenze scientifiche e appigli per nuove teorie, le quali potessero comprendere e risolvere la complessità del tipo di indagine dissipando le incertezze e vaghezze.
Già agli inizi degli anni 70, prima che si sviluppassero le neuroscienze, l’attenzione nei confronti della psicologia era molto forte, e nasceva soprattutto da una pluralità di interessi che erano però esterni alla psicologia stessa (quella tradizionale), e la psicologia ambientale era una di queste.
Uno studio del 1970 condotto da W.H. Ittelson, mette già in evidenza la difficoltà di ridurre l’esperienza di un spazio ad un rapporto semplice di causa-effetto, tra lo spazio e la persona, sia che si consideri prima l’uno o l’altro. Essa dimostra, con dati alla mano, quanto fenomeni di interazione semplice determinino situazioni molto poco scontate e soggette a dinamiche psicologiche non proprio intuitive. Lo studio osserva il comportamento di due gruppi di pazienti di un stesso ospedale psichiatrico che si distinguono rispetto a due diverse sistemazioni. Un gruppo viene sistemato in una struttura di camere multiple, mentre il secondo gruppo è accomodato in camere individuali. Nell’ipotesi semplicistca di causa-effetto tra spazio ed individuo, verrebbe da aspettarsi che lo spazio condiviso agevolerebbe un’interazione sociale maggiore, e che invece un comportamento più introverso verrebbe registrato nel gruppo di coloro che alloggiano in camere individuali. Accade invece completamente il contrario perché le persone reagiscono non tanto direttamente all'offerta esplicita ma alla percezione di libertà che tale di quella scelta che ne deriva. Si verifica quindi che un maggior numero di interazione è registrato nella struttura a camere singole, perché si verifica una percezione di un più vasto margine di possibilità alternative, cosa che invece le stanze multiple non mettono a disposizione. Quando si parla di gioco di sponda in un precedente articolo di questo journal si fa riferimento proprio a queste serie di rimbalzi tra elementi fisici e non, ma anche a logiche di insieme, cioè di sistemi complessi che è difficile congelare e replicare in quanto legati a situazioni contingenti.
Nel campo delle neuroscienze applicate al design succede anche che, a seconda del punto di vista adottato, le cose vengono interpretate e analizzate in modo diverso. L'architetto tende a vedere lo spazio come stimolo alla risposta comportamentale della persona-utente, mentre lo psicologo imposta l’indagine in maniera opposta, vedendo le persone come determinanti delle caratteristiche dell’ambiente (nonostante considerino elementi fisici inamovibili). Questo rende il dialogo interdisciplinare estremamente complicato.
A rendere ulteriormente complicata l’anticipazione di certe dinamiche spaziali, in vista di una progettazione di qualità che risponda alle aspettative, è il fatto che il successo dipende dalla chiarezza dell'obiettivo prefissato. Il tempo è un elemento che discrimina molto i tipi di indagine. Cerchiamo un effetto a breve o a lungo termine? Qual è lo scopo dell’analisi, siamo interessati a guidare le persone nell’esperienza dinamica di un ambiente, e a valutare le loro possibili scelte comportamentali, oppure cerchiamo un’atmosfera da sogno, per un effetto rigenerante all’istante? In poche parole parliamo di una sala di attesa in una stazione oppure di un percorso museale, o, ancora diversamente, pensiamo ad un’area per il co-working?
Applicare la scienza, che siano neuroscienze, statistica, o le conoscenze di psicologia comportamentale, non danno una garanzia di completo controllo del progetto, ma danno garanzia sulla cura di alcuni aspetti che si stabiliscono come prioritari, che sono poi quelli richiesti dal committente, sia esso mosso da interessi privati o da esigenze e aspettative etico-sociali del pubblico. Non si tratterà mai di una previsione completa di quello che accadrà in quello spazio ma sicuramente è un modo per anticipare gli aspetti considerati, e decidere a quali dedicarsi in modo particolare. Siamo consapevoli che ci troviamo di fronte a fenomeni “organici” perché umani, pertanto il team di progettazione necessita un lavoro di coordinamento di vari punti di vista e di diverse capacità creative per risolvere conflitti.
Un approccio artigianale si potrebbe definire, anche se il termine suona molto strano in un’epoca pervasa dalla tecnologia AI.