La nuova sfida del design, la solitudine collettiva

La ripetitività della vita quotidiana comporta la formazione di modelli spaziali ricorrenti che regolano l'interazione tra gli individui. Si creano consuetudini che collocano le persone in schemi predefiniti e con esigenze che passano per esplicite, ma in realtà non lo sono. Ed è per questo che spesso si decreta l’insuccesso di nuovi spazi, anche se il progetto a monte risponde ad un brief apparentemente completo ed efficace .

Per spiegare meglio quanto detto prendiamo come riferimento i progetti dei parchi urbani, che nascono per dare decoro e diletto alla vita urbana delle città di piccole, medie e grandi dimensioni. Gl inserimenti di vaste aree verdi all’interno delle griglie di cemento, quando mostrano generosità in termini quantitativi di dimensione e portata dell’intervento, vengono dapprima visti e giudicati positivamente, percepiti dalla comunità come una sorta di benefit ricevuto dell’amministrazione che lo propone. Succede poi che questi non siano vissuti pienamente, e a lungo termine riportano uno scarso successo, perché al di là dell’essere percepiti come piacevoli macchie di vegetazione, che risvegliano il nostro senso di affiliazione alla natura, non fanno il vero lavoro di rispondere alle aspettative di uso della comunità che ci vive.

immagine da unsplash  di natalie Wagner

Dietro questa disattenzione allo studio dell’esperienza d’uso spesso si cela un altro potenziale problema, quello di non considerare i diversi profili di utenza, o ancora meglio, di non soffermarci su quale siano le reali (anche se inconsapevoli) aspettative e le reazioni diverse delle persone. Il design degli spazi fisici che segnano in modo indelebile le fasi della nostra vita è quasi sempre concepito per un ideale estroverso, costruito sul presupposto che, quando costringiamo le persone a stare insieme, queste si sentano più felici ed attratte da quel luogo.

introverso, ambiverso, estroverso. immagine da futuro prossimo.it

Quando si progetta lo spazio pubblico si tende a pensare che esso debba essere condiviso, che debba rispondere ad una necessità di socializzazione laddove, nella realtà dei fatti, è facile notare tra la folla molti adulti aggrapparsi ai telefoni o alle cuffie, tendere al ritiro verso un mondo più sicuro e gestibile. Gli urbanisti e gli architetti stanno finalmente verificano sul campo quello che viene definito il paradosso della solitudine: gli spazi pubblici progettati per aumentare le opportunità di interazione sociale possono avere la conseguenza involontaria di far sentire emarginate le persone isolate, mentre gli spazi che supportano esperienze solitarie in mezzo alla folla possono incoraggiare un sentimento di appartenenza.

Se questo paradosso suscita stupore e incredibilità è solo perché si è ancora ancorati alla convinzione che l’estroverso rappresenti il profilo vincente, che caratterizzi il leader, l’amico di successo, la norma di riferimento che accomuna la maggior parte delle persone, e che fa passare l’idea che gli introversi siano molti di meno. In realtà molti sono coloro che non sentono di appartenere né all’una né all’altra categoria. Si tratta degli ambiversi, che diversamente dagli introversi, che apertamente dichiarano il loro disagio, pagano un costo energetico (emozionale) ad indossare la maschera dell’estroverso ed allinearsi alle “convenzioni culturali”. La solitudine si porta ancora il carico di una brutta reputazione, mentre sono in molti a bramarla, perfino gli estroversi. Pertanto l’idea di solitudine assume una veste più gioiosa, che si dissocia da quella idea di isolamento che l’OMS considera una minaccia alla salute.

E’ vero che l’uomo è un animale sociale ma è anche vero che oggi più che mai è consapevolmente alla ricerca di un isolamento pacifico che, paradossalmente, rende gli spazi che lo promuovono più “appaganti” rispetto a  quelli “attraenti” , che fino a ieri sembravano destinati a sicuro successo, perché più allegri e stimolanti. Naturalmente esistono ancora contesti in cui la necessità di interazione è fortemente sentita e voluta, ma in modo molto meno diffuso. Al suo posto si è sviluppato un nuovo modo di stare con gli altri, cioè senza interazione attiva, ma con la condivisione ed accettazione reciproca del proprio desiderio di isolamento.

Esistono studi sull’attenzione che ci parlano della soft fascination, tipica degli ambienti immersi nella natura, che può caratterizzare anche gli spazi costruiti progettati per la solitudine “collettiva e consapevole”. La fascinazione più moderata di questi ultimi fa raggiungere livelli di piacevolezza discreti, certamente inferiori a quelli creati per l’ interazione con stimoli forti (hard fascination) tipica di una sale di intrattenimento, ma non per questo meno appaganti. Anzi è comprovato che queste ambientazioni caratterizzate dalla soft fascination registrano un alto punteggio rispetto alla sensazione di ricarica e di rigenerazione mentale. (ART). D’altra parte si sa bene che il potere rigenerativo di uno stimolo non è proporzionale al livello di fascino dello stesso, ma è molto probabile che in molti casi  sia questa l’atmosfera apprezzata, se non addirittura richiesta.

Ne deriva, da quanto finora osservato,che il design degli spazi dedicati ad una ”gioiosa solitudine” richiedano una enorme sforzo compositivo, in cui la sfida è di aumentare l’attrattività ricorrendo a segni e stimoli diversi da quelli hard, che sollecitino il mondo interiore piuttosto che quello esteriore. Gli spazi contemplativi diventano quindi il riferimento tipologico nella progettazione degli spazi della nuova  routine. La loro qualità architettonica è sia risultato di combinazioni sensoriali che possono venire fuori in modo casuale o  come risultato di uno studio mirato. Gli aeroporti sono stati i primi luoghi a sperimentare questo nuovo approccio.

Per esempio esiste un’area dell’aeroporto De Gaulle di Parigi che , secondo me, ricade nella prima categoria. Esso propone una fila di comode chaise lounge poste una di fianco all’altra che si rivolgono tutte ad una enorme vetrata modulare, la quale , a sua volta, si affaccia sul parcheggio degli aerei. Una decina di anni fa ho fatto esperienza diretta dello spazio capitandoci per caso, senza rispondere ad un segnale di invito. Ho trovato la comodità delle sedute unite all’insolito spettacolo delle giganti manovre dei velivoli una combinazione veramente affascinante e rilassante, l’assetto giusto per una solitudine collettiva di cui si ha bisogno durante le pause nei lunghi viaggi oltreoceanici. (foto in basso)

Aereoporto charles De Gaulle Parigi. Foto N. De Pisapia

Un grande risultato, invece voluto e studiato a tavolino, è il Monologue Art Museum in Cina, progettato dallo studio Wutopia Lab (immagini sotto), inaugurato nel 2022 , il quale esplora  la soft fascination con atmosfere vibranti che si avvicinano più a quelle dei luoghi di culto che a quelli espositivi tradizionali. Esiste qui un invito alla condivisione di uno stesso stato di animo tra i visitatori nonostante i momenti di maggiore affluenza e affollamento.

Monologue ARt Museum . Image by courtesy of Wutopia.org

Un po’ più datata invece, e anche per questo lodevole, la soluzione adottata da EMBT-RMJM negli ufficio MP dello Scottish Parliament di Edimburgo inaugurata nel 2004. La versione riveduta del bow window sulla parete esterna dello spazio di lavoro individuale, crea una seduta per una pausa lavorativa nello stesso volume. Un sottospazio, quindi, che riesce a disconnettersi da quello principale, proiettandosi completamente verso l’esterno ( interno ed esterno nelle immagini in basso).

MP Office. Rendering by EMBT-RMJM team

Scottish parliament- mp office- bow window . img da unisplash.com di Chris Flexen


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Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)

Città, cosa mi offri di bello?

La città è una porzione di territorio ad alta antropizzazione che affronta costantemente le sfide legate alla qualità della vita e alla ricerca di un equilibrio estetico che rispetti e si integri armoniosamente con l’ambiente naturale in cui si inserisce, a volte gradualmente, altre bruscamente.

La città vive quindi una perenne tensione verso un’ideale di bellezza, che si esprimerebbe in un alto livello di benessere e di vivibilità dei suoi abitanti, tensione che però rivela criticità sempre maggiori nel tempo, fino ad arrivare ad un’allarmante lettura dei dati medico-scientifici attuali. Gli ambienti urbani degli ultimi decenni infatti registrano un’incidenza di psicopatie molto più alta rispetto a quella negli ambienti rurali, per un fenomeno attribuibile alla dissonanza tra gli stimoli ricevuti e le aspettative biologiche umane.

Lo spazio urbano costituisce lo spazio esterno (outdoor) di riferimento per il cittadino che ci vive. Se è vero che trascorriamo il 90% della nostra giornata nei luoghi chiusi (indoor), la città rappresenterebbe la nostra grande occasione di rigenerazione, il luogo dove poter fare una pausa dal turbinio della vita di ogni giorno (quel 10% del tempo rimasto), dove poter rinvigorire spirito e corpo e fare rifornimento della giusta dose di serenità quotidiana.

Quando i temi messi sul tavolo di discussione dei pianificatori sfiorano la questione centrale del benessere psicofisico del cittadino, o il livello di soddisfazione per la qualità della vita offerta, il dibattito diventa difficile, fino a risultare sterile. E questo avviene sia perché le sfere individuali sono difficili da indagare, sia perché concetti quali la bellezza e la felicità risultano inafferrabili.

Se ci spostiamo ad un altro tavolo di lavoro, quello degli psicologi, gli stessi che ci mettono in allerta sulla condizione psicofisica della popolazione, il dibattito diventa più ricco e le soluzioni offerte non mancano.

Il filone di psicologia positiva, attualmente quello più convincente, cerca di infondere un generale atteggiamento ottimista, che ci rende potenzialmente tutti capaci di miglioramento e di raggiungimento di un adeguato livello di soddisfazione della propria vita. La spinta motivante è certamente fondamentale, dicono, ma anche un contesto che alimenti la positività, attraverso la promozione della bellezza e del benessere relazionale, può essere di grande aiuto.  Il contesto spaziale e sociale è importante, anzi fondamentale, perché contiene quegli elementi di supporto e di appiglio necessari per la resilienza e per superare le negatività che si presentano inesorabilmente nella vita. La bellezza (e la felicità annessa) non è quindi solo un concetto astratto e fuori di noi, ma un’armonia di stimoli sensoriali positivi, oltre che di valori etici quali la giustizia, l’equità, la libertà.

L’arte, quella che ufficialmente si considera tale, in città si manifesta esplicitamente tramite opere artistiche e scultoree esposte al pubblico, che si tratti di installazioni statiche o interattive. Ma esistono altre modalità in cui l’arte ed il bello si rivelano alle persone, anche se in maniera meno consapevole. La facciata di un edificio, il pattern di una pavimentazione, il design di una panchina, sono tutti elementi che segnano un’esperienza estetica che può essere molto forte, specialmente quando si propongono in modo costante e ripetitivo nella quotidianità del cittadino.

I pionieri della neuro-estetica hanno spiegato bene quello che alcuni pittori avevano già intuito all’inizio del ventesimo secolo, e cioè che rispondiamo in modo diverso a livello cognitivo ed emotivo a determinate caratteristiche geometriche e materiche, che riguardino sia un oggetto piccolo che arreda la nostra casa sia un elemento della scala grande, quale la facciata di un edificio.

La neuro-estetica è in grado di distinguere e spiegare le diverse reazioni che si innescano al primo impatto visivo (linee, curve, colori), che riguardano poi l’aspetto che può essere ben controllato nella fase iniziale di progettazione.

La biofilia, l’ipotesi secondo cui l’essere umano si sente affiliato e attratto a tutto ciò che riguarda le espressioni della natura, trova il suo fondamento nelle evidenze scientifiche che questo campo scientifico ha prodotto. La piacevolezza che esperiamo durante la contemplazione dell’ambiente naturale si spiega attraverso l’equilibrio che si ragiunge tra la semplicità, l’immediatezza della lettura, ed il moderato livello di stimolazione della nostra attenzione.

Immagne da articolo sullo studio di Arnold J Wilkins, UNiv.Essex

In natura i componenti con bassa frequenza spaziale presentano un contrasto elevato mentre i componenti con alta frequenza hanno un contrasto più basso (rispettivamente la parte bassa e alta degli alberi in foto). In città le architetture infrangono questa regola della natura: tendono a presentare schemi regolari e ripetitivi, che risultano a volte stressanti alla vista (sequenze dei piani nel grattacielo in foto).

Vale la pena fare un piccolo preambolo e sapere, a tal proposito, che la nostra area cerebrale destinata al riconoscimento dei paesaggi complessi,  come quelli urbani oltre che del territorio, risulti essere molto vicina a quella deputata al riconoscimento dei volti.

La fisiognomica, studiata approfonditamente da Lavater alla fine del 1700, valutava il modo in cui  i tratti stabili dei volti delle persone influenzassero il giudizio nei loro confronti. Ad essa poi si è contrapposta la patognomica che, invece di considerare i tratti stabili del volto, che conducevano ad un approccio pregiudizievole e bigotto nei confronti delle persone, prendeva in considerazione l'intenzionalità delle espressioni per le emozioni del momento. Per quanto la mancanza di una base empirica solida a supporto portasse a considerare questa area di ricerca pseudoscienza, tuttavia è interessante notare come alcuni studi in psicologia e neuroscienze si siano poi ispirati a tali teorie, e abbiano poi verificato che gli esseri umani abbiano una tendenza innata a fare inferenze rapide (anche se non necessariamente accurate) sull’aspetto umano. La pareidòlia, per esempio, si manifesta quando associamo determinate architetture, o anche casuali espressioni della natura, ai volti umani, e porta  a giudicare alcuni tratti casuali con una emotività  non prevista, che  condiziona il giudizio estetico. E’ possibile sorvolare su tale condizionamento, ma è indubbio che ci sia una tendenza inconscia ad attribuire del simbolismo ai segni del paesaggio circostante, e a volte anche ai segni astratti che ci vengono proposti.  

L’esempio dell’immagine in alto (1) mette a confronto segni astratti ed isolati che danno una risposta emotiva molto differenziata. La prima figura (linea diritta) si associa all’idea di noioso e statico, la linea curva si aggancia ad una idea di calma e comfort, mentre l’ultimo segno spezzato si associa generalmente al concetto di aggressività e confusione. Potreste trovare il risultato banale, ma spesso la città offre esperienze visive forti oppure squallide e tristi nella più totale indifferenza rispetto alla prevedibilità dell’effetto in fase progettuale.

Gli antichi dedicavano molta cura all’aspetto estetico di un edificio  e delle strade, e ci impiegavano molto tempo nella loro realizzazione, tempo che giocava a loro favore perché permetteva una accorta trasposizione di  valori da parte di chi le realizzava (progettisti e artigiani), una comunicazione diretta, che non subiva tagli né interferenze delle diverse professionalità che invece sono coinvolte oggi. In poche parole le città erano coscienti della loro essenza, erano composte, garbate e discrete.

Oggi la vita è più frenetica in un sistema globalmente più entropico e stressato, per cui la stimolazione eccessiva o distorta, anche solo visiva, che abbiamo visto prima derivare dal caos dei segni e anche dalla monotonia delle ripetizioni all’infinito, diventa un fattore da tenere sotto controllo. L’invito a rallentare il passo e ad addolcire  il linguaggio non è accettato immediatamente da tutti per un’atavica resistenza al cambiamento, ma anche perché si viene da una tradizione di  lungo periodo che ha elogiato l’architettura del sublime, quella dirompente  e rappresentativa, che ci aveva educato a percepire il ranking dei palazzi e distinguere gli edifici del potere e militare dagli altri.

La diffusione dei software di progettazione digitale, che afferma una nuova corrente, la cosiddetta  architettura parametrica (legata ad algoritmi capaci di proliferare in modo indipendente) potrebbe rappresentare la soluzione per materializzare e risolvere la complessità del mondo contemporaneo e il cambio ideologico. 

Se è vero che la progettazione e costruzione tradizionale richiede(va) uno sviluppo lento per favorire una crescita coerente e organica, allora è venuto il momento di affidarsi a questo strumento progettuale, che potrebbe aiutare a risolvere la falsa dicotomia  che oppone due fenomeni  apparentemente in conflitto: da un alto il timore che l’intelligenza artificiale possa soppiantare l’umano e, dall’altro, l’umano che lamenta una incapacità di stare al passo con lo sviluppo veloce dei tempi.

Imagine da ARchdaily.com

In questo caso il ruolo fondamentale del progettista non viene negato, ma rimane e persiste per la responsabilità del controllo dei risultati dei nuovi strumenti di elaborazione.

Credo che uno dei gruppi di progettazione più all’avanguardia del momento, il gruppo MVRDV,  esprima l’intenzione di mettere in pratica un nuovo approccio in questa realizzazione inaugurata nel 2022 ad Amsterdam. Per uno spunto di riflessione su quanto detto riporto di seguito alcune foto e la descrizione sel progetto fatta dagli stessi autori.

“Valley Towers è un tentativo di riportare una dimensione verde e umana nell'ambiente inospitale degli uffici di Amsterdam Zuidas. È un edificio dai molteplici volti; sui bordi esterni dell'edificio si trova un guscio di vetro liscio a specchio, che si adatta al contesto del quartiere degli affari. All'interno di questo guscio, l'edificio ha un aspetto naturale completamente diverso e più invitante, come se il blocco di vetro si fosse sgretolato per rivelare pareti rocciose scoscese all'interno piene di pietra naturale e vegetazione”.

Gran parte dell'edificio è aperto al pubblico ed i materiali utilizzati per le diverse superfici, verticali e orizzontali, hanno cura di esprimere una conformazione fortemente geologica dell’idea di partenza.

Immagine da archdaily.com

Alain the Botton, nel suo libro “Architecture of Happiness”, ci definisce vulnerabili a quello che abbiamo di fronte, e questa vulnerabilità può essere tanto più forte quanto minore è la consapevolezza di questa continua comunicazione che avviene tra i segni dello spazio costruito e gli utenti che ci abitano.

L’esperienza puramente estetica, finora considerata, non è che un frammento di una interazione molto complessa che non solo considera l’esperienza  multisensoriale ma anche le diverse dinamiche psico-comportamentali.

Nei prossimi articoli cercheremo di analizzare anche questi altri aspetti.

(1) immagine tratta dal libro “Architecture of Happiness”, Alain the Botton, Penguin Book, 2006

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Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)

Zoom-in o Zoom-Out. Come approcciarsi alla neuroarchitettura?

Gli articoli scientifici sugli aspetti psicologici della architettura sono in grande aumento, specialmente se si considerano gli ultimi 5 anni. Tendenzialmente si assiste ad una proliferazione di ricerche che analizzano aspetti molto specifici come, per esempio, quelle che si dedicano alla relazione tra diverse forme geometriche ed i livelli di stress o ansia, oppure quelle che indagano l’influenza dei diversi parametri luminosi sul stato di allerta.

Piccoli frammenti di un puzzle complesso che è quello che rappresenta l’interazione delle persone nell’ambiente costruito.  Ma d’altra parte come pretendere di rivoluzionare l’approccio al design se non si fa riferimento all’evidenza scientifica, la cui attendibilità è legata all’osservazione di aspetti considerati isolatamente, pena la invalidazione del rapporto causa effetto del fenomeno osservato? 

iNTERNO VENEZIANO - G. Ascione

Esistono punti di vista che ritengono inefficace un tipo di approccio unicamente dettagliato e specifico, come quello del prof. Anjan Chatterjee, che nel suo articolo suggerisce un livello maggiore di astrazione per potere tenere a freno la considerazione di tante piccole variabili ingombranti, e quindi propone una maggiore attenzione sulle risposte psicologiche generiche delle persone all'ambiente. Il suo riferimento principale è una triade architettonica che consiste in 1) coerenza – quanto appare organizzato e leggibile uno spazio, 2) fascino – quanto complessa e ricca di informazioni è l’esperienza dello spazio, e 3) familiarità – quanto lo spazio genera un senso di appartenenza e comfort.

Una categorizzazione che sembrerebbe chiara e risolutrice in prima istanza, ma che sembra volgere lo sguardo indietro (e non mi riferisco alla triade vitruviana), verso le premesse di circa quaranta anni fa, quando si era agli albori della psicologia ambientale. All’epoca però la tendenza spingeva in direzione opposta, cioè si auspicava una sperimentazione rigorosa che producesse evidenze scientifiche e appigli per nuove teorie, le quali potessero comprendere e risolvere la complessità del tipo di indagine dissipando le incertezze e vaghezze.   

Già agli inizi degli anni 70, prima che si sviluppassero le neuroscienze, l’attenzione nei confronti della psicologia era molto forte, e  nasceva soprattutto da una pluralità di interessi che erano però esterni alla psicologia stessa (quella tradizionale), e la psicologia ambientale era una di queste.

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Uno studio del 1970 condotto da W.H. Ittelson, mette già in evidenza la difficoltà di ridurre l’esperienza di un spazio ad un rapporto semplice di causa-effetto, tra lo spazio e la persona, sia che si consideri prima l’uno o l’altro. Essa dimostra, con dati alla mano, quanto fenomeni di interazione semplice determinino situazioni molto poco scontate e soggette a dinamiche psicologiche non proprio intuitive. Lo studio osserva il comportamento di due gruppi di pazienti di un stesso ospedale psichiatrico che si distinguono rispetto a due diverse sistemazioni. Un gruppo viene sistemato in una struttura di camere multiple, mentre il secondo gruppo è accomodato in camere individuali.  Nell’ipotesi semplicistca di causa-effetto tra spazio ed individuo, verrebbe da aspettarsi che lo spazio condiviso agevolerebbe un’interazione sociale maggiore, e che invece un comportamento più introverso verrebbe registrato nel gruppo di coloro che alloggiano in camere individuali. Accade invece completamente il contrario perché le persone reagiscono non tanto direttamente all'offerta esplicita ma alla percezione di libertà che tale di quella scelta che ne deriva. Si verifica quindi che un maggior numero di interazione è registrato  nella struttura a camere singole, perché si verifica una percezione di un più vasto margine di possibilità alternative, cosa che invece le stanze  multiple non mettono a disposizione. Quando si parla di gioco di sponda in un precedente articolo di questo journal si fa riferimento proprio a queste serie di rimbalzi tra elementi fisici e non,  ma anche a  logiche di insieme, cioè di sistemi complessi che è difficile congelare e replicare in quanto legati  a situazioni contingenti.

Nel campo delle neuroscienze applicate al design succede anche che, a seconda del punto di vista adottato, le cose vengono interpretate e analizzate in modo diverso. L'architetto tende a vedere lo spazio come stimolo alla risposta comportamentale della persona-utente, mentre  lo psicologo imposta l’indagine in maniera opposta, vedendo le  persone come determinanti  delle caratteristiche dell’ambiente  (nonostante considerino elementi fisici inamovibili). Questo rende il dialogo interdisciplinare estremamente complicato. 

mETRO nAPOLI DI g. aSCIONE

A rendere ulteriormente complicata l’anticipazione di certe dinamiche spaziali, in vista di una progettazione di qualità che risponda alle aspettative, è il fatto che il  successo  dipende dalla chiarezza dell'obiettivo prefissato. Il tempo è un elemento che discrimina molto i tipi di indagine. Cerchiamo un effetto a breve o a lungo termine? Qual è lo scopo dell’analisi, siamo interessati a guidare le persone nell’esperienza dinamica di un ambiente, e a valutare le loro possibili scelte comportamentali, oppure cerchiamo un’atmosfera da sogno, per un effetto rigenerante all’istante? In poche parole parliamo di una sala di attesa in una stazione oppure di un percorso museale, o, ancora diversamente, pensiamo ad un’area per il co-working?  

Applicare la scienza, che siano neuroscienze, statistica, o le conoscenze di psicologia comportamentale, non danno una garanzia di completo controllo del progetto, ma danno garanzia sulla cura di alcuni aspetti che si stabiliscono come prioritari, che sono poi quelli richiesti dal committente, sia esso mosso da interessi privati o da esigenze e aspettative etico-sociali del pubblico.  Non si tratterà mai di una previsione completa di quello che accadrà in quello spazio ma sicuramente è un modo per anticipare gli aspetti considerati, e decidere a quali dedicarsi in modo particolare. Siamo consapevoli che ci troviamo di fronte a fenomeni “organici” perché umani, pertanto il team di progettazione necessita un lavoro di coordinamento di vari punti di vista e di diverse capacità creative per risolvere conflitti.

Un approccio artigianale si potrebbe definire, anche se il termine suona molto strano in un’epoca pervasa dalla tecnologia AI.    

Bunker e Rifugi: storie di potere e di paure

I potenti dell'ultima generazione stanno esplorando soluzioni alternative all'habitat naturale, finanziando progetti per creare spazi artificiali lontani dalla superficie terrestre. Alcuni puntano all'iperspazio, altri a rifugi sotterranei. Tuttavia, in caso di necessità di fuga dal nostro mondo, quali speranze avremmo di condurre una vita felice nel sottosuolo? E qual è la praticità di tali progetti?

Who wants to live forever... (when love must die)”, brano della colonna sonora per il film Highlander, del 1986, riflette sull'angoscia dell'immortalità e sul superare la morte dei propri cari. Anche se fosse possibile creare un luogo ampio per una vasta comunità, ci troveremmo a fronteggiare un lungo periodo di disagio psicofisico. Non solo l'amore muore, ma anche la bellezza sfuma. Chi vorrebbe, o meglio, chi potrebbe vivere a lungo sottoterra, senza accesso alla luce del cielo e a uno spazio esterno, soprattutto dopo aver sperimentato quanto possa essere deprimente una vita isolata? Questo nonostante la consapevolezza che i nuovi rifugi anti-rischio nucleare o disastri ecologici offrano ogni comfort e si presentino come dimore di lusso. Ma il lusso non è sinonimo di bellezza e, anche potendo riprodurre un ambiente simile a quello naturale, come non temere la precarietà di un sistema totalmente isolato e segreto?

lucernari che si aprono su cieli virtuali simulano la natura in atmosfere lussuose

Esiste attualmente un mercato di case bunker in varie parti del mondo appetibile soprattutto per i ricchi emergenti. Negli USA e nell'ex URSS, vecchi centri di comando e strutture di stoccaggio della guerra fredda sono stati trasformati in condomini di sopravvivenza e luoghi di ritrovo esclusivi. Ville segrete di recente costruzione si trovano invece in Nuova Zelanda, e sono argomento di conversazione tra star hollywoodiane e sportivi di alto livello.

Ma la pretesa di creare sistemi artificiali indipendenti e chiusi  si rivela sempre utopistica, e non solo perché il meglio del nostro pianeta è proprio la libertà di muoversi ed esplorare, ma soprattutto perché la tecnologia che promette sicurezza ed efficienza genera un meccanismo persecutorio tra coloro che ne sono esclusi, dalla curiosità al desiderio di invadere.

Le Gated Communities degli anni 70 stanno già dimostrando il fallimento dell’atteggiamento difensivo e di chiusura. La “deriva securitaria”. ha alimentato  la sensazione di sicurezza nel breve periodo, garantita dall’esclusività dell’accesso a questi luoghi protetti, ma nel  lungo periodo ha reso meno familiare e più minaccioso l’esterno, richiedendo sempre più coraggio e forza nell’affrontare la quotidianità.

Nel caso del bunker nell'isola hawaiana di Kauai, il proprietario - indovinate chi - ha cercato di mantenere il progetto in segreto, imponendo a tutti i lavoratori, dagli architetti agli imbianchini, il divieto di divulgare informazioni sulla struttura, pena il licenziamento. Il cantiere è protetto da un muro alto 6 metri, ma l'intenzione di mantenere il segreto ha avuto l'effetto contrario: ha stimolato la curiosità e la divulgazione di dettagli. Sono state rivelate importanti informazioni, come la dimensione della superficie (circa 460 mq) e il costo dell'operazione (270 milioni di dollari). Si vocifera inoltre che il progetto includa case su alberi a forma di disco e vasti campi di coltivazione, forse nella speranza che emergenze naturali o artificiali siano di breve durata, permettendo così di godere di spazi aperti alternativi alla grande dimora sotterranea. Quest'ultima si estende lungo un tunnel con oltre 30 camere, collegando due palazzi per il collegamento verticale, con uffici, sale conferenze e una cucina professionale.

Se questa operazione consente un onesto movimento di denaro allora possiamo ritenerla positiva e migliore di tante altre, almeno dal punto di vista etico e ecologico. La scala di intervento è relativamente ridotta, poco invasiva, almeno per quello che riguarda la sua parte più brutta, e può avere un futuro come testimonianza di una ennesima storia di deliri di onnipotenza e di controllo, di paure e di fughe.

Il Tunnel BOrbonico del 1853

Numerose sono le testimonianze passate di tentativi di controllo sulle realtà contingenti, interessanti non solo dal punto di vista architettonico, ma soprattutto per la chiara e facile lettura di certe dinamiche sociali e politiche. Voglia di cambiamento e di raggiungimento di nuovi equilibri economici politici e sociali hano smepre generato tensioni e quindi interventi sul territorio da parte dei potenti del tempo. Due esempi molto noti in italia sono il Passetto di Borgo concepito nel 1227 ed il più recente Tunnel Borbonico voluto nel 1853. Il primo, un passaggio pedonale sopraelevato lungo circa 800 m che collega il vaticano con Castel Sant'Angelo a Roma, aveva lo scopo di permettere al papa di rifugiarsi nella mole adrianea in caso di pericolo, mentre il secondo veniva creato a Napoli, su progetto di Enrico Alvino, come sicura via di fuga per i monarchi borbonici, visti i rischi che avevano corso durante i moti del 1848. Il luogo ben riparato è diventato poi rifugio dai bombardamenti durante la seconda guerra mondiale e si è arricchito di dettagli descrittivi dell’epoca, per diventare una grande attrazione turistica.

Per sdrammatizzare ulteriormente e dissipare sensazioni claustrofobiche concludiamo quindi con un progetto del 2016, tutto italiano, che punta a soluzioni di vita alternativa nello spazio Ivedi foto). Si punta ad un modulo di città cis-lunare con 1000 individui dislocati in diversi nuclei abitativi (quartieri) in orbita e sulla Luna, nell’ipotesi di un nodo orbitale di interscambio con 100 persone. Gli spazi sono concepiti su principi di democrazia ed inclusione, cercando , almeno sulla carta, di minimizzare i conflitti interni tra gli abitanti e abbandonando logiche di selezione dei passeggeri, come si è fatto finora con gli astronauti.

All’angoscia sviluppata all’idea di bunker sotterranei si sostituisce il sorriso al pensiero di soluzioni spaziali, al momento che la visione di un futuro iperspaziale non è assolutamente nuova ma persevera, senza riscontri con la realtà, da oltre cinquant’anni, e cioè dalla data del primo allunaggio. Chi vivrà vedrà e speriamo non sia una fuga, ma solo un nuovo modo di fare vacanza.

2016 – ORBITECTURE, STAZIONE ORBITANTE, INFLATABLE SYSTEM, - Pica_ciamarra_Associati


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Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)

Il Destino (di)segnato

Chi non si è mai trovato ad osservare un rendering di ambienti architettonici? Che siano schizzi a mano libera o modelli CAD in 3d essi risultano molto suggestivi e realistici, una restituzione artistica nel primo caso, quasi una fotografia nel secondo. Essi aiutano il progettista a esprimere aspetti che un disegno tecnico non può cogliere.

Faro Santander, progetto di Chipperfield

Luci rifesse che restituiscono colori, ma soprattutto superfici quasi tangibili, al punto da immaginarsi odori e suoni. Nonostante questa fedele restituzione della scena architettonica lo strumento progettuale nasconde il limite della sua funzione di controllo sulla riuscita effettiva dell’ambiente progettato, pur convincendo l’occhio del cliente inesperto.

Basta soffermarsi su quelle sagome di persone inserite e sovrapposte al disegno, osservare il loro linguaggio corporeo standardizzato e limitato in un numero finito di pose, espressione a loro volta di un momento sospeso, per capire che si sta descrivendo una bolla temporale che non appartiene al flusso delle contingenze. Se riflettiamo sul potenziale movimento biologico suggerito dalla postura, rileviamo un’assenza di reazione cognitiva ed emotiva, una esperienza messa in standby per dare risalto solamente (e naturalmente) alle funzioni spaziali degli elementi di arredo.

Ma quale sarà il destino delle persone vere che andranno ad occupare quegli spazi? Si potrebbe garantire un maggiore controllo sulla riuscita del progetto se si considerasse l’interazione degli utenti dal punto di vista psicofisiologico e non esclusivamente ergonomico?

Noi essere umani, quando siamo calati realmente in una situazione, siamo sottoposti a migliaia e migliaia di stimoli. Se vogliamo considerare solo la visione sappiamo che ogni piccolo dettaglio colpisce la nostra retina, ma non siamo capaci di ritenere tutto perché il nostro cervello è troppo piccolo. E allora il nostro cervello fa una selezione facendo entrare in gioco l’attenzione, che sceglie quello che deve essere elaborato.

Ma quale attenzione? A tirarla in ballo in questo modo sembra che dobbiamo fare uno sforzo mentale in ogni istante della nostra vita. In realtà “attenzione” è un nome collettivo con cui indichiamo una famiglia di meccanismi che restringono o indirizzano l’elaborazione in vari modi, e in diverse parti del sistema nervoso. Essa può essere esterna, rivolta verso l’ambiente intorno a noi, e può essere interna, quando segue la nostra linea di pensiero. Inoltre può essere esplicita, implicita, sostenuta, cioè di vigilanza su un fenomeno o oggetto. Soprattutto può essere una combinazione di alcune di queste appena citate. Ovviamente più sono gli stimoli più ci sforziamo nella selezione dell’attenzione, e più paghiamo il prezzo legato all’energia mentale coinvolta.

Prendiamo per esempio la progettazione di un’area di lavoro collettiva, che accolga più gruppi aggregati, e immaginiamo di dover decidere il layout interno rispetto a condizioni architettoniche già fissate nell’edificio. I progettisti dedicano molto tempo alla scelta del materiale del colore delle pareti, alla rifinitura del pavimento, e dispongono le scrivanie immaginando e giudicando il risultato valutando il rispetto delle norme, del buon senso, e soprattutto l’armonia deli elementi di arredo, ma pensano poco a quello che realmente potrebbe accadere ai comportamenti ed ai pensieri delle persone.

immagine di G. AsCIONE

Una persona seduta alla scrivania può apprezzare - a livello tattile e propriocettivo - la comodità di una sedia, oppure giudicare l’altezza del piano di lavoro e la sua adeguatezza all’uso della tastiera. Il giudizio estetico sicuramente caratterizza il primo impatto, ma poi diventano altri i fattori coinvolti che definiscono interamente l’esperienza della giornata lavorativa. Si dà peso alla qualità di un paesaggio esterno e al modo in cui una finestra concede questa scena, ma soprattutto pesa il modo in cui la postazione si relaziona con le altre e come vengono controllati i coni visivi dei colleghi, il grado di discrezione del proprio schermo. La possibilità di spostarsi da un ambiente all’altro, di assumere diverse posture, diventa indice del proprio grado di libertà e della possibilità di perdersi in momenti di divagazione senza avere la sensazione di essere giudicati. Ma si cerca anche l’opportunità di incontri casuali e non, grazie ai quali un breve confronto di idee sul progetto può aiutare a risolvere problematiche, a coordinare soluzioni individuali.

Lo spazio ci educa e decide il nostro destino, ma spesso non ci rendiamo conto del peso che piccole variazioni del layout possano avere. Basta veramente poco per innescare un effetto domino che si ripercuote al livello personale ed interpersonale, e determina una situazione complessa.

Ricordiamoci quindi che le sagome sovrapposte ai render architettonici a conclusone di un progetto fanno riferimento a persone vere, diamo loro un’anima e valutiamo tutti le possibili reazioni ai fenomeni che possono scaturire dalla storia che si sta raccontando. Gli strumenti per fare questo, ormai, ci sono tutti.

 
























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Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)

Perché tanta resistenza verso la neuroarchitettura?

Credo che il motivo di una difficile applicabilità dei principi di neuroarchitettura (e di quelli della psicologia ambientale), specialmente negli ambienti istituzionali e commerciali, risieda nella tensione tra l’organizzazione formale e quella informale.

 La prima è una esigenza dettata dai programmi già adottati, da pacchetti preconfezionati e più accessibili sia dai costruttori che dai progettisti, e sono più comprensibili e accettati anche da gestori e finanziatori. La seconda, l’organizzazione informale con le sue regole non scritte e quasi sempre disattese, riguarda la nostra spontanea reazione o pulsione verso il contesto in cui siamo immersi. Essa è sconosciuta in principio e resa palese solo in seguito, ad occupazione avvenuta. Le figure professionali chiamate in gioco non hanno né forte consapevolezza né controllo su queste sensazioni. Queste si rivelano solo in un secondo momento, e non nelle loro reali vesti, ma camuffate come disagio, come effetti collaterali di interventi considerati assolutamente legittimi che vanno controllati. L’unico virtuosismo nel campo della progettazione sembra manifestarsi nel “post occupancy evaluation”, che più che altro tende a tarare il sistema impiantistico con il controllo dei parametri fisiologici, piuttosto che quelli psicofisiologici o strettamente psicologici. Un approccio, questo collaudato, che non riesce a cogliere tutti gli aspetti tipici dell’organizzazione informale, la quale sembra solo apparentemente generarsi in modo anarchico e casuale, mentre invece è il risultato di processi di assestamento di sistemi complessi che possono essere studiati a monte.

Perché se da un lato ci sono i parametri fisici, come i volumi, le rifiniture e i layout di arredo, dall’altra ci sono i setting comportamentali, quelli che R.G. Barker - della tradizione lewiniana - già negli anni 60 studiava e definiva come eco-comportamentali, e non perché studiasse il rapporto delle persone con la natura, ma perché asseriva che fossero comportamenti che naturalmente scaturivano dal contesto, soprattutto da quello costruito.

Quando si parla delle origini della psicologia ambientale si fa sempre riferimento alla ricerca di Ulrich del 1984, un momento di rivelazione che spiega e dichiara ufficialmente l’importanza della vista di un paesaggio naturale per il recupero del benessere non solo psicologico ma soprattutto fisico di un paziente in ospedale. In realtà il campo di indagine nasce ufficialmente oltre 30 anni prima, a New York, dove la municipalità della capitale decideva di finanziare un'indagine al National Institute of Mental Health per studiare gli effetti che l'assetto architettonico dell'ospedale psichiatrico potesse avere sui pazienti. Il filone nasceva negli USA ma stentava a diffondersi in Europa, tant’è vero che solo dopo un decennio dall'inizio delle prime pubblicazioni americane esce in Inghilterra, nel 1981, il primo numero del Journal Of Environmental Psychology.

Tale tensione e resistenza è stata ancora più forte in Italia , che fino a qualche anno fa rimaneva l'unico paese europeo a registrare un assenza totale di collaborazione tra la pratica di progettazione e l'indagine psicologica.

A ben rifletterci sembra che la resistenza all’approccio interdisciplinare risulti direttamente proporzionale alla stratificazione e ricchezza culturale del contesto.

Come è possibile che la patria di Vitruvio, di Alberti e di Leonardo non riesca a vedere in questi illuminati teorici una spinta ad andare oltre e affrontare la nuova complessità, piuttosto che un freno?

Dopo tutto studi su dati antropometrici odierni confermano che le misure dell’uomo sono ancora le stesse di quello “ben proporzionato” e rielaborato da Leonardo, con una variabilità della misura inferiore al 10%.

A parte la battuta un po’ cinica, credo che la difficoltà a fare il salto di qualità stia nella varietà degli aspetti da considerare in un progetto. Bisogna offrire risposte che possano competere con i parametri quantitativi dell’approccio più tecnico, il quale risulta vincente perché quasi sempre perché capace di soddisfare meglio le esigenze del mondo normativo e/o politico.

Tutti sono riverenti di fronte all’autorità dei valori numerici, ma non è detto che non si riesca a creare strumenti risolutivi a problematiche più apparentemente soft.

 Per esempio affidabili diagrammi di flusso possono restituire o almeno verificare schemi comportamentali, prevedendo criticità legate alla conflittualità o vantaggi legati ad una maggiore coesione e interdipendenza. Possiamo veicolare i processi della mente visiva grazie alle conoscenze consolidate nel campo psico-fisiologico e creare risposte che si adattano a diversi profili di utenza con risposte variegate e flessibili.

 Può darsi che sia il termine ergonomia che deve essere sviluppato ulteriormente, perché non è ergonomica solo una condizione che ci fa funzionare bene, ma soprattutto quella che ci fa sentire bene.

E’ forse proprio in questa sottile differenza che risiede il segreto della vera bellezza di un progetto.

















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Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)

Architettura delle scelte nelle architetture dello spazio

Qual è la relazione tra Nudging e Architettura?

La tecnica del nudge, cioè della persuasione a prendere determinate scelte piuttosto che altre, è molto spesso applicata in un contesto ambientale, pertanto si interfaccia con le discipline legate alla progettazione degli spazi .

Da non confondere assolutamente con le tecniche di manipolazione del comportamento, il nudging rappresenta un aiuto al processo decisionale dell’utente, il quale è consapevole e concorde sul raggiungimento di un obiettivo prefissato. Il premio nobel Richard Thaler , insieme al suo collega Cass Sustein, attribuiscono a questa tecnica un carattere paternalistico-libertario, una terminologia che, per quanto possa risultare un ossimoro, esprime sinteticamente i valori sottintesi che possono legittimarla.

Immagine da teachable

Quando il nudging si applica al design di ambienti istituzionali esso esprime la sua vera potenzialità e legittimità, perché è qui mirato al fine nobile che riguarda il benessere dell’individuo e della comunità a cui egli appartiene. Il dibattito sulla legittimità si accende quando si applicano le stesse tecniche agli spazi commerciali, come i supermercati, dove l’utente percepisce l’intento manipolatorio, e cioè quando avverte di essere dirottato su determinati acquisti piuttosto che altri. Ma anche in quest’ultimo caso il concetto di liberalità è salvo se si rispettano tre principi base che legittimano “la spinta gentile , e cioè la trasparenza, il carattere facoltativo, ed il valore pubblico. Il valore pubblico sussiste quando gli interventi strategici sono finalizzati all’adozione di stili di vita salubri, e nel caso del supermercato varrebbe la spinta all’acquisto di cibi sani.

E’ piuttosto sorprendente che bisogna ricorrere a espedienti di psicologia comportamentale per condurre l’utente alle scelte più virtuose, ma purtroppo la colpa è del nostro complesso cognitivo, che non è un sistema coerente ed organico. Le nostre scelte non sono sempre razionali perché abbiamo l’istinto a prendere scorciatoie e a subire i condizionamenti che derivano dall’emozione, dall’interazione sociale e dal contesto ambientale. Tali impulsi minano il comportamento più coerente anche quando ci si trova davanti ad una persuasione in linea con gli interessi dell’individuo.

Schema esplicativo delle 4 categorie di nudge. Tipo 1 (Riflessivo) e Tipo 2 (Automatico). Trasparente/ Esplicito e Non Trasparente/Implicito

Quando però l’approccio diventa troppo educativo si corre il rischio di innestare un atteggiamento di ribellione “adolescenziale” che può evolversi in posizione complottista, di sfiducia perfino nei confronti di prove scientifiche.

Lo schema sovrastante esprime le 4 principali classificazioni rispetto ad un intervento di persuasione. Difficile dire a priori quale categoria sia la più giusta ed efficace, perché spesso essere espliciti (trasparenti) non fa raggiungere importanti obiettivi voluti, come nel caso della segnaletica stradale che impone il limite di velocità, lungo il River Shore Drive a Chicago (vedi foto e nota in fondo).

La progettazione delle architettura degli spazi e delle scelte (e qui sono due competenze che devono collaborare) esprime inevitabilmente il punto di vista di chi redige la strategia , e per questo è fondamentale capire quanto l’organo decisore sia stimato e legittimato. Certamente l’intervento è percepito diversamente a seconda che lo stratega sia il Ministero della Salute oppure un privato, quale una organizzazione lavorativa. La seconda deve fare uno sforzo ulteriore per legittimare il suo intervento, la sua sfida è più difficile, ed è fondamentale analizzare le caratteristiche contestuali ed i frame comportamentali che le caratterizzano per stilare una strategia di successo.

In ogni caso, anche in contesti facili, cioè in condizioni di alta eticità e forte motivazione, non si può pretendere che il nudging sia l’unico strumento per la trasformazione, ma piuttosto deve essere inteso come un modo per massimizzare l’impatto di più misure prese, tra cui gli incentivi e i mandati.

Le strategie adottabili , che fanno tesoro delle conoscenze di psicologia e delle scienze cognitive, sono innumerevoli e vanno valutate caso per caso. Si può spingere alla scelta di un percorso perché questo assicura una esperienza più piacevole, perché può facilitare la risoluzione di problemi periferici, perché può garantire un vantaggio o, molto meglio, può garantire il mantenimento del vantaggio già acquisito (l’avversione per le perdite è maggiore rispetto al non raggiungere una vittoria).

Tutto queste strategie, infinite quanto lo sono i processi cognitivi che gli psicologi e gli scienziati cognitivi conoscono bene, si traducono facilmente in scelte progettuali dello spazio, che il designer può mettere in campo a partire dall’impostazione dei percorsi, dalle scelte delle rifiniture, e nelle gerarchie dei sottospazi.

Il successo è garantito se ad un buon design-thinking e ad una consulenza specifica si unisce un’ottima tecnica creativa. E poco importa se non si registra una totale partecipazione degli utenti, perché alla fine è l’impatto sociale, più di quello individuale, che conta maggiormente.

River Shore Road di Chicago (vedi nota*)

NOTA* Il lago Michigan è un esempio di nudging applicato a scale più grandi della progettazione degli spazi, quali la pianificazione del territorio. La strada che lo costeggia è panoramica ma presenta una serie di curve pericolose. Siccome molti autisti all’inizio non prestavano attenzione al limite di velocità segnalato la città ha adottato un nuovo modo per incoraggiare i conducenti a rallentare. Una serie di strisce bianche dipinte sulla strada che non sono dossi di velocità ma semplicemente inviano un segnale visivo ai conducenti. Quando le strisce compaiono per la prima volta, sono distanziate uniformemente, ma quando i conducenti raggiungono la parte più pericolosa della curva, le strisce diventano più ravvicinate, dando la sensazione che la velocità di guida sia in aumento e innescando l'istinto naturale a rallentare.

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Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)

Design Biofilico. Tra scienza, neuroscienza e pseudoscienza

La neuroarchitettura è nota come campo interdisciplinare che si basa sulla collaborazione tra design e fondamenti di neuroscienza. Tale connubio suscita perplessità quando si fa riferimento al design biofilico. Il termine “biophilia” (riporto il termine in inglese poiché diffuso dopo la pubblicazione del libro omonimo nel 1984, del biologo statunitense Edward O. Wilson) sottende, nella etimologia della parola, più un significato filosofico/letterario piuttosto che un rigore scientifico, perché fa riferimento a quella forza attrattiva, non ancora completamente spiegata, che gli uomini sentono nei confronti della natura e delle sue manifestazioni.  Tale amore per l’ambiente naturale ci fa percepire come gradevole tutto ciò che vi appartiene, e si giustifica con il fatto che noi ci siamo evoluti strutturalmente, cognitivamente, ed emotivamente in esso.

Spesso si considera la biofilia solo dal punto di vista percettivo, cioè come apprezzamento estetico che in qualche modo ci tira su il morale e ci rende più contenti. In realtà biofilia intende l’affiliazione del genere umano a tutto ciò che è espressione della natura, anche qualcosa che va oltre il mero apprezzamento dei sensi. Questa più allargata definizione risulta inevitabilmente più vaga , meno rigorosa scientificamente e più vicina all’ambito del fenomenologico, nonostante la ricerca continui costantemente a sostenere e a validare l’assioma di partenza. Infatti aumentano le scoperte che evidenziano i meccanismi biologici per cui noi esseri umani reagiamo positivamente a livello fisiologico oltre che psicologico a determinate stimolazioni  del mondo naturale, legittimando la validità dell’ipotesi biofilica.

Una revisione sistemica del 2018 ha rilevato che il tempo trascorso in natura porta benefici ad ampio raggio. Sono stati registrati infatti miglioramenti della pressione sanguigna, ed esiti positivi correlati al cancro e diabete di tipo 2. Adulti che hanno trascorso almeno 10 minuti all'aperto e per tre volte a settimana hanno registrato un calo di quasi il 20% del cortisolo, l'ormone dello stress.

E adesso la pandemia non fa che confermare l’inequivocabilità di questi benefici.

L’esistenza di patologie, che sicuramente esistono ma contraddistinguono solo la piccola minoranza della popolazione mondiale, non è certamente una motivazione di alcuni insuccessi. Esiste infatti una lunga lista di malattie - ignote per la maggior parte -  le quali testimoniano casi di profonda avversione nei confronti di alcuni fenomeni o elementi in natura, che al contrario sono comunemente riconosciuti come rigeneranti e benefici dalla stragrande maggioranza delle persone.  

Siamo abituati a sentire parlare di entomofobia (paura degli insetti), o ancor di più dell’aracnofobia (paura dei ragni) , per le quali la persona va nel panico al punto tale da rifiutarsi di uscire di casa. Ma esistono altri casi meno noti quali l'anablefobia.  Chi ne soffre non ha nessuna intenzione di sdraiarsi sulla schiena ad osservare il cielo stellato perché ha paura di guardare in alto: molti legano questo tipo di fobia al terrore verso l'ignoto e all'insignificante presenza dell'uomo nella vastità dell'universo, mentre altri la vivono combinata alla paura per la gravità, che li porta a pensare che saranno schiacciati. Ancora più sconvolgente ed incredibile risulta l’antrofobia, il terrore dei fiori, forse indotto dal terrore degli insetti che gravitano attorno ai fiori o dalle malattie che potrebbero veicolare.

Queste sono le classiche eccezioni, che sottendono particolari traumi non superati e interiorizzati, ma che confermano la regola. La regola è che, a livello percettivo, gli elementi di uno spazio che replicano caratteristiche della natura o che ne facciano parte, rendono la nostra esperienza piacevole e ci marcano come affiliati alla natura.

Ma qual è il significato profondo di questo sentirci affiliati?   

Esso non si distacca troppo dal concetto legato al senso di appartenenza ad una comunità, ad un’associazione. Quindi sentirsi affiliati a tutto ciò che è natura significa sentirsi parte del mondo, organico e anche inorganico, purché costituente il sistema, rispettando le regole di convivenza ed evitando gerarchizzazioni e classificazioni artificiose.  

Il design biofilico si fa promotore di principi che vanno oltre il perseguimento della bellezza legata al compiacimento estetico e sensoriale, proponendo un approccio che vuole allontanarsi dall’antropocentrismo. L’obiettivo è, sì assicurare benessere all’individuo attraverso il godimento di stimoli sensoriali piacevoli, ma è anche e soprattutto perseguire altri valori, quali la verità, la coerenza,  la giustizia. Tali valori sono esprimibili  attraverso il giusto dosaggio di parametri spaziali capaci di modulare le aspettative dell’occupante e le sue reazioni emotive. D’altra parte anche le fobie, pur nella loro negativa interpretazione del creato, tendono a dare significati a certi fenomeni e presenze che vanno oltre l’apprezzamento estetico ma ne interpretano i significati ed i messaggi nascosti, e quindi esistenziali.

I pregiudizi diffusi sul nuovo approccio conducono al fraintendimento del concetto base di biofilia e inducono alla trappola del greenwashing – qui declinato nel contesto architettonico e non della green economy-  cioè quella tendenza ad agire in modo superficiale e semplicistico che, senza un’attenta lettura del contesto spaziale, ritiene che il mero inserimento di piante sia sufficiente a migliorarne la qualità.

La solitudine delle piante ornamentali

 Specialmente nella piccola scala di intervento dell’interior design notiamo che le macchie di verde stentano a lasciare un segno profondo nella nostra esperienza spaziale. Pareti verdi incorniciate a mo’ di quadro, oppure piante dalle chiome più rare e stupefacenti, rispondono a layout geometrici e a cure degne di esposizione museale. Il verde viene inserito senza alcuna considerazione della sua potenzialità comunicativa e biologica, e viene ridotto ad elemento di riempimento di angoli dimenticati in fase di progettazione.  

La natura reale diventa un surrogato di se stessa, e per quanto si possa asserire che anche in forma surrogata la natura possa avere effetti rigeneranti, la forzata declassazione di ciò che è autentico (effetto di greenwashing appunto) finisce per togliere credito alle reali potenzialità di questo nuovo paradigma progettuale. Il progetto biofilico quindi viene relegato alla condizione di pseudoscienza, nonostante il progressivo contributo del metodo scientifico, che si sforza di emancipare tale disciplina dalla sua parvenza di semplice indagine fenomenologica.

Extraordinary claims require extraordinary evidence
— Carl Sagan

"Affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie". Questa è una famosa frase di Carl Sagan, astrofisico di fama mondiale, che dà bene il senso della fatica che la ricerca in questo ambito deve affrontare per legittimare il percorso, nonostante i risultati continuano ad esserci.

La pratica del “Bagno nelle foreste” (Shinrin-Yoku”), diffusa in Giappone sin  dal 1982, ritiene altamente benefico il profondo contatto con specifiche foreste. Ad oggi si contano nell’isola ben 62 boschi certificati che sono riconosciuti di provvedere al rilascio di fitocidi, i quali che abbassano la pressione sanguigna, aumentano la produzione di cellule natural killer (NK) e migliorano l'umore. La diffusione di tale pratica fuori dall’Asia è massima in USA. Qui è promossa a rango di vero e proprio protocollo  medico, anche se solo in un ambito ristretto, cioè nei centri di trattamento per traumi militari.

Quali effetti porterà la "The Tree Path" di Sabbioneta? (crediti CRA)

Il vero e definitivo successo di tali pratiche innovative è possibile solo attraverso la comprensione dei legami tra benessere personale, comunitario ed ecologico. Senza la sinergia della struttura fisica, delle emissioni biochimiche e della narrativa sociale, (cosa che si è verificata naturalmente in Giappone) risulta difficile comprendere e diffondere la pratica nella sua complessità, completezza ed efficacia.

Queste sarebbero le ragioni per cui la pandemia è risultata una esperienza fondamentale per legittimare alcuni assiomi secondo i quali la natura non solo determina la riduzione dello stress, restaura l'attenzione, ma è un esempio di come l'esperienza della bellezza sia collegata con la generosità e la gentilezza, legittimando la teoria della scrittrice e filosofa Iris Murdoch, secondo cui questo profondo legame con la natura spiegherebbe il fenomeno per cui è più probabile che le persone salutino lungo i sentieri in natura che in altre parti della città.

 L’insuccesso, o meglio le difficoltà che incontra anche la  green economy e tutto l’apparato a sostegno della transizione energetica, probabilmente sta nell’incompletezza della sua visione.  Questo movimento ha come obiettivo il risparmio delle risorse del pianeta e uno sviluppo economico sostenibile, che assicuri un futuro agli abitanti della terra e in primis all'uomo. Ma qui il concetto di biophilia non è centrale, o perlomeno non lo è ancora.

Prende il sopravvento l’idea di dover domare e gestire le leggi che governano il sistema, piuttosto che far prevalere la presa di coscienza di esserne parte e di dover sottostare alle sue leggi. Il risultato è un senso di frustrazione per un meccanismo rigenerativo che stenta a partire.

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Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)

Il paesaggio sonoro e il global comfort

I sensi che abbiamo a disposizione si combinano, si aiutano vicendevolmente per colmare lacune nella comprensione della realtà che ci circonda, e il tutto per una ottimizzazione dell’esperienza. Ho potuto avere piena consapevolezza della modalità cross-modale con cui i sensi decodificano la realtà circostante già quando ero adolescente, grazie alla mia forte miopia. Se in classe durante le pause capitava di non indossare i miei occhiali, non solo non vedevo bene, ma non riuscivo neanche a scandire bene le parole dei miei compagni di classe, e uno stato di moderata confusione mi assaliva. Forse, per una persona miope, la funzione uditiva è già normalmente sovraccaricata e sfruttata per sopperire al deficit visivo ? E forse sottrarre ulteriori “byte” al nostro cervello così all’improvviso, non gli lascia il tempo di adattarsi e compensare ? Ingaggiare la vista simultaneamente all’udito può aiutare a selezionare i suoni che ci interessano. Si può fare affidamento sul labiale e sulle scene in genere per capire verso cosa volgere la nostra attenzione per “spegnere” gli altri suoni che non ci interessano e che risultano un intralcio alle altre percezioni su cui vogliamo focalizzarci. Questo processo selettivo spontaneo ed automatico è definito effetto  “cocktail party” e se n’è già parlato in un precedente post del 2018 , che introduce alla psicoacustica, la quale , a differenza dell’acustica, interpreta i suoni a seconda della loro influenza sulla nostra attenzione e sul nostro umore.

SHHH (she said) - dal video “China Girl” di David Bowie

Quando la resa acustica non è di qualità, a prescindere dalla gradevolezza delle singole sorgenti sonore,  il risultato è un stimolo caotico, fastidioso, in poche parole è rumore.

Il rumore è l’equivalente di una scena brutta, di un odore disgustoso, di un contatto repellente, di una vertigine nella deambulazione, perchè noi sempre cerchiamo informazione chiara, semplice, magari rassicurante. Quando la risposta non è tale, e si richiede un notevole ed ulteriore sforzo selettivo,  lo stress derivante rischia di farci  precipitare nello smarrimento, psicologico oltre che fisico-sensoriale.

Nei musei si fa gioco degli effetti cross-modali per creare una comunicazione più completa e coinvolgente, che amplifica (magari le completano solamente) le esperienze positive che vanno oltre la mera visione dell’artefatto. In un museo la restituzione dei suoni – come quella degli odori - ha una forte influenza sul godimento dell’arte, basti pensare a quanto artisti (fra cui Rotchko) siano riluttanti al cambio del luogo espositivo e convinti che un’installazione errata possa far apparire le loro arti puramente decorative.

Gli ambienti della quotidianità, come le scuole e gli uffici, però non sono soggetti ad altrettanta attenzione e l’approccio dal punto di visto psico-acustico è quasi sempre snobbato.  Il tema del Global Comfort è argomento di dibattito culturale, ma sebbene sia provata la connessione tra inquinamento uditivo e molte malattie anche mortali, alcuni  fattori di progettazione sfuggono alle considerazioni di tipo  normativo e diventano veicolo di cronicità per i ripetuti anche se minimi effetti  negativi.

 L’annoyance è un nuovo parametro stabilito dalla Organizzazione Mondiale della Sanità che riguardano l'esposizione al rumore ed il disturbo da rumore, che non è semplicemente il livello di esposizione giornaliera ai livelli troppo alti di decibel ma è qualcosa di più. Siccome gli effetti sulle persone sono collegati alla loro soggettività risulta difficile codificare i fattori, stabilire delle regole generali che determinano la qualità di un ambiente. Ma tale difficoltà non deve scoraggiare quanto piuttosto spingere verso continui interventi correttivi.

Una difficoltà sta nel fatto che le problematiche variano a seconda delle diverse situazioni che si creano nell’ambito della stessa destinazione d’uso. Per esempio dire scuola o ufficio non è di per sé indicativo per una soluzione univoca anche perché ciascuna tipologia sta subendo un profondo cambiamento del linguaggio distributivo e funzionale, tale da proporre situazioni nuove, spazi per funzioni che prima non esistevano. Gli uffici si arricchiscono di sale per video call collettive o per una sola persona, di sub aree informali che si insinuano nei vecchi open space, e le scuole popolano i vecchi atrii e spazi connettivi con layout di arredo che rispondono a nuove teorie didattiche.

Spesso tendiamo a pensare che un ambiente tranquillo e tendenzialmente silenzioso  possa sempre giovare, ma non è sempre così. In realtà già nel secolo scorso , con la diffusione degli open space, si  sperimentano nuovi modi di mitigare i fastidi soggettivi legati ai suoni, e si cerca di intervenire al di là delle norme,  dedite esclusivamente al controllo dei tempi di riverbero e la intelligibilità del parlato. Si incomincia a parlare di scenario sonoro e si introduce l’adozione del rumore di fondo (il suono bianco, grigio, rosa), uno strumento fondamentale  che risolve  l’imbarazzo diffuso per un’atmosfera inaspettatamente troppo intima, facile rivelatrice delle minime azioni e di parole sussurrate. SI elimina lo stimolo attraverso la strategia dell’addizione, una soluzione che tende ad isolare il fastidio di alcuni suoni attraverso il processo di copertura piuttosto che di eliminazione degli stessi (sottrazione).

Non è difficile immaginare quanto questa strategia, risolutiva in casi di cronicità quali  l’acufene (percezione di un fastidioso suono continuo, a volte un fischio, che varia da persona a persona), si possa rivelare sbagliata in ambienti lavorativi, poiché aumenta la soglia dello stress senza che ce ne rediamo conto.

Esiste una classifica dei suoni in base alla loro gradevolezza, ma la stessa però dipende a sua volta dal contesto preso in considerazione. Quanto è gradevole ascoltare il canto di un uccello? Qual è il limite temporale oltre il quale lo stesso canto risulta fastidioso? E infine, in che modo ogni contesto inflenza il valore di tale gradevolezza?

Immagine tratta da uno studio del 2018

Nella immagine al lato è riportato un grafico che evidenzia, con tre colori diversi, come variano i giudizi su uno stesso ambiente sonoro a seconda del contesto preso in considerazione. Al di là di una prevedibile sovrapposizione dell’area centrale, che indica valori percettivi bassi, si riscontrano giudizi diametralmente opposti quando si va verso i valori più alti. Tale evidenza prova quanto detto finora.

Ancora più sorprendente è il grafico riportato in basso da un caso di studio nell’area metropolitana di Londra, che evidenzia come un drastico cambiamento a livello sociale, quale è stato l’avvento della pandemia nella primavera del 2020 ed il relativo lockdown, abbia determinato un aumento enorme ed improvviso del numero di proteste e reclami relativi ai rumori registrati in quel periodo (secondo dati resi pubblici dalle autorità locali).

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Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)

I percorsi della luce nel nostro corpo

Con la scoperta del terzo fotorecettore si è capito che la luce, una volta fatto il suo ingresso nel nostro corpo attraverso l’occhio, segue percorsi alternativi a quello principale, cioè quello che collega la retina con la corteccia visiva, nella parte occipitale.  

Fig. A . Fonte web

La luce arriva al nervo ottico e poi devia, segue un altro breve percorso per fare quindi sosta nella parte centrale del nostro encefalo (vedi fig.A), che non è funzionale alla visione della realtà oggettiva (parola grossa, perché la realtà che percepiamo non è mai oggettiva), ma diventa un segnale per attivare o disattivare processi biologici e predisporci a determinate attività fisiche e/o mentali. Stiamo parlando dell’attivazione del recettore ipRGC, che reagendo alle onde corte della luce che arrivano nella parte bassa dell'occhio, quelle blu che girano intorno al valore di 460nm, comunica con il nucleo soprachiasmatico e quindi con la ghiandola pineale della zona sopra citata, per interrompere il rilascio della melatonina, svegliarci, e sincronizzare quotidianamente il ciclo veglia-sonno.

Che la luce avesse un effetto diretto sul nostro ritmo circadiano che andasse oltre la visione era stato già intuito nel secolo scorso, quando era stata individuata una reazione alla luce in alcuni topi resi ciechi. Si sa che gli esseri umani e i roditori hanno strutture cerebrali simili, e quindi era solo una questione di tempo poter individuare il nuovo neurotrasmettitore e comprenderne il ruolo.  

Fig.B Immagine tratta dal web

E’ stata questa una scoperta che ha sconvolto il mondo dell'illuminazione tutto, in particolare il suo mercato, perché si è capito che le caratteristiche luminose necessarie alla nostra buona salute ed al nostro buon metabolismo possono non coincidere con i parametri richiesti dalle esigenze di buona visione. Ed ora, proprio mentre si stanno per definire nuovi riferimenti scientifici, nuove soluzioni architettoniche umano-centriche e nuove norme progettuali, si annuncia una ulteriore nuova scoperta, anche questa non completamente inaspettata, che individua un terzo percorso della luce, una sorta di bretella o scorciatoia che mette in comunicazione la parte visiva e l’area cerebrale centrale non visiva, fino ad ora considerate separate, almeno per quanto riguarda gli stimoli legati alle onde luminose. (vedi fig.B)

I protagonisti di questo terzo percorso sono altri fotorecettori, non quelli che intercettano la luce blu, ma quelli coinvolti anche nella visione e sensibili alla luce rossa,(Red Cones). Si tratta dei coni sensibili a valori di lunghezza d’onda che girano intorno ai 650nm, e che in questo loro specifico compito fanno qualcos’altro che renderci consapevoli del colore. Per capire nel dettaglio questa ulteriore funzione non visiva sono però necessarie ulteriori approfondimenti scientifici.

Sta di fatto, comunque, che questa scoperta ci fa capire quanto la sensibilità al colore non determina solo consapevolezza dello stesso (vista), ma innesca meccaniscmi biologici che inevitabilmente si manifestano con reazioni psicologiche. Più che percezione è quindi corretto parlare di intercettazione, come già si è detto a riguardo della luce blu che, una volta rilevata nei modi e nei tempi giusti, indirettamente stabilisce anche la produzione di cortisolo, serotonina, testosterone, ecc., regolando diverse attività cognitive ed emotive. 

Possiamo anche non comprendere nel dettaglio quello che effettivamente succede, ma questa scoperta conferma ulteriormente che l’esperienza dell’ambiente che ci circonda è un fenomeno complesso, che lo spazio dialoga con il nostro corpo ma anche con il nostro stato d’animo.

Siamo soliti associare il rosso alla rabbia e agli stati di eccitamento, mentre  il blu viene considerato adatto a creare atmosfere rilassanti, ma questa semplificazione risulta riduttiva e a tratti poco convincente. Uno studio di Mariana Figueiro, ex Direttrice del centro LRC (Lighting Research Center) ed ora ricercatrice a Mount Sinai NY, dimostra che l'esposizione alla luce rossa di sera può promuovere la vigilanza e migliorare le prestazioni senza influire negativamente sulla secrezione di melatonina. Inoltre la luce rossa può essere utilizzata per aumentare la vigilanza nel pomeriggio, vicino alle ore di sonnolenza dopo pranzo, dal momento che sembra essere uno stimolo di allerta più forte nel pomeriggio rispetto alla luce blu. In questo caso sono i coni a lunga lunghezza d'onda a mediare gli effetti di allerta della luce rossa durante il giorno. Ma sappiamo bene che esistono anche gli effetti di allerta della luce cosiddetta blu, cioè con predominanza delle onde corte, che, grazie alla sensibilità del terzo recettore, sopprimono la melatonina in vari momenti della giornata e ci rendono più reattivi mentalmente soprattutto al mattino.

Chissà che la meraviglia, la forte carica emozionale che ci investe quando siamo di fronte alla luce del tramonto o quella del fuoco, dipenda proprio dal contrasto tra la predisposizione al sonno di una luce di basso stimolazione circadiana e l’effetto stimolante dei predominanti onde lunghe in quella fase del giorno.

foto di G. Ascione

Con queste continue nuove scoperte e smentite si ha la conferma che è riduttivo parlare dell'influenza psicologica dei colori, ma che è piuttosto la luce, alla base della percezione degli stessi, a influenzare le nostre esperienze.  Inoltre è difficile incasellare la realtà in compartimenti divisi e definiti, in situazioni che esigono una risposta progettuale preconfezionata e univoca. L’interazione del nostro corpo con l’ambiente circostante è un rapporto di scambio continuo e complesso che abbiamo il dovere di analizzare di volta in volta, senza avere la pretesa di utilizzare soluzione pre-confezionate.

Non dobbiamo temere di esplorare nuovi ambiti e testare quello che a volte già proviamo a livello viscerale, perché presto la scienza fornirà la spiegazione. E allora ben vengano riflessioni e sperimentazioni su alcune supposizioni, tra le quali quella che la luce possa stimolare la relazione sociale, oppure può influire sulla percezione della temperatura  o perfino della velocità del tempo.

Tutto ciò che al momento si spiega con dinamiche di semplici suggestioni  potrebbe trovare presto il supporto di una più concreta spiegazione a livello neurologico e fisiologico, la quale, fornendo  valori quantitativi (dati numerici) , riuscirà a convincere tutti in modo  indistinto.  

Fonte https://youtu.be/7hNxzjygHro

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Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)

Interior Design, gioco di sponda per la trasformazione comportamentale

Credo sia legittimo paragonare il design di interni al gioco di sponda, con criteri e strategie molto simili a quelle adottate nel gioco del biliardo, o delle bocce. Fare sponda significa appoggiare, facilitare una determinata azione, e in ambito della progettazione di interni, vuol dire aiutare le persone a migliorare la loro esperienza legata all’ambiente specifico, e quindi creare luoghi che facilitano le attività legate alla loro specifica funzione, spazi responsivi alle interazioni degli utenti

Lo spazio costruito e il gioco di sponda.  (Img  G. Ascione)

Lo spazio costruito e il gioco di sponda. (Img G. Ascione)

Non pensiate che la digitalizzazione sia l’unica via da seguire per creare di un ambiente interattivo e responsivo, anzi. Le interferenze a livello percettivo, che utilizzano le dinamiche psicologiche, si esprimono maggiormente con le geometrie, con la disposizione degli arredi, con i tipi di illuminazione.

La neuroarchitettura impone un modello progettuale capace di creare le sponde, cioè quelle interazioni tra l’utente e l’arredo che incanalano la persona verso nuovi comportamenti, e fa percepire “il rimbalzo” come una sorta di naturale flusso da seguire e non come coercizione.

Se ci guardiamo attorno notiamo che esistono da sempre alcuni elementi architettonici che assolvono a questo compito, anche se, il fatto che essi siano protagonisti delle nostre esperienze di vita da oltre un millennio, non ci rende consapevoli della loro efficacia.

I corridoi stretti e lunghi, per esempio, già presenti nelle antiche strutture greco-romane, non lasciano molto spazio a scelte alternative se non quella di percorrerli in tutta la loro lunghezza senza poter cambiare la traiettoria. Certo si può fare dietro front, ma non avrebbe senso.

Quanto detto serve a riconoscere il nuovo ruolo del designer che sembra investito di una responsabilità e funzione sociale che va ad aggiungersi alla funzione di organizzare spazi e restituire gusto estetico. Di questa nuova valenza professionale non c’è ancora piena consapevolezza, e la diffusa cultura del costruito fa molta fatica a riconoscere la necessità di coinvolgere questa competenza nel team di progetto.

Immagine da www.positivemindfulleader.com

Immagine da www.positivemindfulleader.com

Per fortuna non mancano in giro esempi di buona architettura, quella per cui il valore aggiunto non è tangibile nell’immediato, ma è percepito nella iterazione dell’esperienza e quindi nel tempo. Si tratta di realizzazioni che hanno coinvolto conoscenze trasversali, del campo della psicologia e fisiologia, grazie alle quali l’artefatto ha acquisito una sorta di organicità e dinamicità finora poco presenti.

Consideriamo, per esempio, la progettazione dei bagni in una scuola elementare, e supponiamo che l’incarico non riguardi semplicemente la realizzazione di un contesto per lavarsi le mani, ma richieda di perseguire l’obiettivo di abituare i bimbi di età prescolare a lavarsi le mani ogni qualvolta utilizzano la toilette. Supponiamo anche che i bimbi abbiano radicato in loro la percezione che questa abitudine rappresenti una inutile perdita di tempo. Come fare?

Creare dei lavabi con rubinetti accessibili e a misura di bimbo sicuramente è il punto di partenza. Un remainder sulla parete potrebbe essere efficace ma mancherebbe la componente essenziale: la motivazione interna a compiere quel gesto. Anche se ci fosse un adulto sempre presente a sottolineare l’importanza e l’utilità del gesto non si lavorerebbe sulla motivazione. Una ricompensa ripetuta, espressa da una simpatica faccina che compare sullo specchio, potrebbe invece funzionare laddove è impossibile indurre un convincimento. Alla lunga l’atto di lavarsi le mani diventerebbe automatico e quindi acquisito come naturale e imprescindibile.

Per comprendere quali possono essere le dinamiche per assicurare il successo dell’intervento bisogna capire dove si colloca la difficoltà dell’iniziativa. Cominciare qualunque cosa nuova rappresenta un momento importante, che richiede una forte energia di spinta a causa di una inerzia mentale intrinseca, che limita la nostra capacità di intraprendere nuovi percorsi e farceli propri. Il fattore paura, a livello inconscio, è sempre lì pronto a metterci a disagio.

La progettazione degli spazi quindi può aiutare ad un rapido debug del disco rigido mentale, indispensabile per imparare, disimparare e imparare di nuovo, e quindi facilitare il cambiamento. In questa situazione è fondamentale intervenire nutrendo il nostro cervello con pensieri affermativi, mai negativi. La coercizione, che la segnaletica dei divieti esprime, non crea il sopracitato debug, ma aumenta la paura e lo stress, e decreta l’insuccesso del cambiamento richiesto e dell’accettazione del nuovo.

Ma cosa significa creare risposte affermative in uno spazio?

Significa incoraggiare piuttosto che negare, attraverso una politica della ricompensa legata alla scelta virtuosa. E’ ormai conoscenza diffusa la strategia del nudge usata nelle lobby degli edifici, dove l’ascensore è ben nascosta alla vista degli utenti esterni in modo da stimolare l’uso delle scale attraverso un design delle stesse piuttosto attraente. Tale scelta è ritenuta la migliore perché favorisce il movimento e quindi il fitness cardiocircolatorio. Si tratta di un esempio banale, che nel tempo ha cercato di adottare sempre nuove soluzioni, come quello di ricorrere a feedback sonori o visivi gradevoli, che ripagassero della scelta virtuosa fatta, oltre che suggerirla in modo discreto e gentile.

La Metropolitana di Odenplan a Stoccolma

Il meccanismo della ricompensa ha il suo risvolto negativo di cercarne e di aspettarne sempre una nuova, ma questo non rappresenta un problema nel nostro caso. Sia per il caso dei bambini a scuola, che per gli utenti degli edifici pubblici, l’obiettivo non è generare continuo stupore o sorpresa (ben venga anche quella), quanto piuttosto creare una buona abitudine. La ripetizione di un atto, che sia all’inizio recepito come nuovo e che richiede un atto di volontà più o meno dispendioso, porta alla acquisizione dell’automatismo che alleggerisce il carico sia a livello mentale che a livello motorio (fisico - propriocettivo).

In questo periodo di grande cambiamento culturale che esige l’affermazione di stili di vita più salubri, è importante considerare la progettazione architettonica un potente ed efficace strumento di trasformazione politica e sociale.





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Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)

I luoghi della transizione (collegamenti)

Il trapasso da un ambiente all’altro implica anche il passaggio da una attività ad un’altra, ed inevitabilmente una pausa, nonostante la dinamicità dell’atto.

La nostra quotidianità è fatta di pause più o meno lunghe, ed è impossibile pensare di vivere senza farne alcuna. Sui luoghi di lavoro la più recente legge prevede, oltre alla pausa pranzo non retribuita, la concessione di almeno 10 minuti continuativi, se la giornata eccede le 6 ore, per consentire un recupero delle energie psicofisiche ed anche per attenuare il lavoro monotono e ripetitivo.

In caso di lavoro da videoterminalisti si suggeriscono fortemente (ma non si impongono) le micro-pause, cioè le interruzioni che durano poco meno dei 2 minuti, necessarie a ridurre soprattutto il disagio visivo. Quando si guarda a lungo il monitor la frequenza dell’ammiccamento ( battito delle ciglia) diminuisce ed espone la superficie dell’occhio all’aria più a lungo. Tali effetti possono essere facilmente mitigati spostando lo sguardo altrove, oltre i 6 metri, per soli 1 o 2 minuti, consentendo il rilassamento del muscolo oculare e riattivare la lacrimazione e la pulizia della cornea.

L’effetto positivo delle micro-pause si avverte anche in altri ambiti diversi dal sistema visivo, quali Il sistema muscolo-scheletrico, quello circolatorio e soprattutto il sistema cognitivo, ed infatti non è da poco tempo che si sono sviluppati e diffusi programmi software che provvedono a ricordare le interruzioni di lavoro e aiutano a gestirle nel migliore dei modi.

Collegamento semi-aperto del Castel Beseno TN.  Foto G. Ascione

Collegamento semi-aperto del Castel Beseno TN. Foto G. Ascione

Alan Hedge, professore alla Cornell University, ha immaginato già nel 2015 un ideale pattern lavorativo che si basa sulla regola delle 3 S (vedi figura sotto), che stanno per Sitting, Standing, Stretching, ad indicare l’importanza di alternare tra loro tre attività fondamentali per il benessere del sistema muscolo-scheletrico, che sono appunto lo stare seduti, lo stare in piedi e gli esercizi di allungamento. Alla luce dei più recenti risultati medico scientifici e delle ultime raccomandazioni dell’OMS, che vede il sistema cardiovascolare malfunzionante la principale causa di morte tra le malattie non trasmissibili, si potrebbe suggerire la revisione di questo protocollo con l’aggiunta di una quarta S (stroll), in riferimento alla raccomandazione dell’OMS di dedicare almeno 30 minuti al giorno alla camminata moderata.

Se la camminata diventasse una occasione ripetuta per una bella e rilassante micro-pausa all’interno di un’attività lavorativa potremmo pensare di caratterizzare gli uffici creando più occasioni di transizione. Le pause pranzo che consentono passeggiate all’aria aperta sono senz’altro la soluzione ideale, ma non sono sempre proponibili, e certamente non più di una volta al giorno.

Pensiamo quindi alle micro-pause che ci assorbono poco più di uno o due minuti, quelle che si impiegano per trasferirsi da una sala all’altra o semplicemente per allontanarsi un attimo per raggiungere l’area più adatta a fare una telefonata. Non sarebbero queste delle ottime occasioni per delle pratiche rigeneranti, che sarebbero efficaci per interrompere i disagi emotivi o semplicemente per creare aspettative su eventi imminenti?

Se si pensasse addirittura ad allungare i collegamenti, con dei detour densi di significato, si potrebbero promuovere occasioni di divagazione utile, come un incontro casuale con un collega, o opportunità per dissipare l’ansia e prepararsi ad affrontare eventi importanti.

In un articolo di questo blog di circa un anno fa si è fatto riferimento al carico di significato che F.L: Wright attribuisce ai corridoi nelle sue residenze, in particolar modo nella Casa Kaufmann (FallingWater). Qui l’eccessivo sottodimensionamento per altezza e larghezza spinge l’utenza ad affrettare il passo ed amplificare il godimento dello spettacolo offerto dall’improvvisa dilatazione e spettacolarità delle camere da letto collegate.

Il concetto di corridoio continua ancora oggi ad essere oggetto di sperimentazione e trasformazione, e anche in ambiti diversi da quello residenziale. L’arch. Hertzberger, in ambito scolastico, ha trasformato il ruolo del corridoio da mero luogo “punitivo“ a nobile spazio per apprendimenti alternativi, efficaci per i diversi profili psicologi.

Villa di Poppea Sabina, Oplonti  NA.  Foto G. Ascione

Villa di Poppea Sabina, Oplonti NA. Foto G. Ascione

Il primato dell’attenzione alle percorrenze, tuttavia, va attribuito all’architettura greco-romana. I romani associavano i camminamenti ai momenti di ozio, attribuendo a tale concetto un’accezione tutt’altro che negativa. Per gli antichi Romani infatti l’otium era la cura di sé e della propria saggezza, che passava per la contemplazione spirituale e lo studio, utile e necessario al cittadino di alto rango. Pertanto le residenze non potevano fare a meno dei colonnati, spesso ripetuti sui quattro lati dei cortili interni, e per i quali la distanza tra una colonna e l’altra segnava il passo e contemporaneamente aiutava a generare una piacevole brezza, stimolando il pensiero positivo.

Dai tempi della repubblica romana il mondo non ha più visto una società dell’otium, e il negotium è diventato padrone del mondo, eppure non mancano pensatori che apprezzano e abbracciano la vecchia visione.

L’ozio è il padre di tutti i vizi ed il coronamento delle virtù
— Franz Kafka

In ogni caso c’è da dire, ad ulteriore punto a favore dei camminamenti soprattutto in ambiti lavorativi, che non tutte le andature implicano ozio, anzi. Le pause di dieci minuti, ma anche le micro-pause di soli uno o due minuti sono utilissime alla buona salute poiché diminuiscono il discomfort muscolare , migliorano la circolazione, aumentano la produttività. Rivalutare gli elementi spaziali di raccordo e transizione e considerarli proattivi ad un benessere mentale oltre che fisico, significa creare un ambiente salubre e, quindi, facilitare una esperienza lavorativa di qualità.

Nuovi modelli spaziali per il new normal

Uno spazio che comunica adeguatamente con l’utente e gli suggerisce scelte convenienti, comportamenti corretti nel minore tempo possibile ha un valore aggiunto. Si sa, il tempo è denaro, e se l’ambiente costruito lascia adito a titubanze e incertezze può remare contro l’utenza, procurandogli ansia e stress

La fluidità delle tipologie di spazi di cui tanto si parla attualmente, cioè la necessità di creare una sfumatura che possa ridurre le differenze che fino ad ora hanno distinto l’ufficio dalla casa, può lasciare esterrefatti, perché si scardinano le fondamenta del vecchio paradigma del progetto, che vedeva come prioritario caratterizzare un ambiente per renderlo adeguato alla funzione specifica da accogliere. Ma ormai è evidente che le nuove necessità richiedono residenze che possano offrire spazi lavorativi e uffici che esprimano una forte domesticità.

Casa Ufficio di Barbie – 1984

Casa Ufficio di Barbie – 1984

“Una buona ergonomia equivale ad una buona economia” è una citazione di degli anni 90’ in cui la principale preoccupazione in ergonomia era ridurre i rischi di errore (a volte fatale) e creare maggiore sicurezza. La frase era legata specialmente al design di settori specifici di luoghi di lavoro, come le torri di controllo degli aeroporti, i centri operativi delle chiamate di emergenza. Oggi però l’ergonomia non mira più esclusivamente all’incolumità delle persone e a prevenire l’errore quando questo risulta fatale, ma diventa uno strumento atto a garantire maggiore benessere (e una aumentata e migliorata efficienza). Il modello di intervento deve fare riferimento all’ecologia comportamentale e quindi alla costruzione di una adeguata architettura delle scelte. L’ecologia comportamentale è una disciplina che studia le basi evolutive del comportamento animale rispetto alle pressioni ecologiche. Esso si può adattare in ambito costruito, piuttosto che quello biologico, e cercare di preservare e assecondare gli equilibri psicofisici degli individui, cioè quei tratti comportamentali e psicologici che assicurano il successo e l’adattabilità alle generazioni attuali e future.

Le pressioni ecologiche che riguardano l’attuale dibattito culturale, determinano i nuovi tratti adattivi da sollecitare e quelli disadattivi da eliminare. Il tempo è l’elemento chiave di questa trasformazione. Non ne abbiamo mai abbastanza ma è anche evidente che ne sprechiamo in gran parte, e siamo messi di fronte ad una frustante incongruenza.

I nuovi ambienti saranno digitalizzati

I nuovi ambienti saranno digitalizzati

Una corretta economia delle decisioni può essere la risposta giusta, e non stiamo parlando delle decisioni che ci pongono di fronte ad una alternativa tra vita e morte o di fronte alla possibilità di immediati ed enormi perdite economiche, ma quelle decisioni di tipo olistico, che caratterizzano la quotidianità di ogni individuo, nei suoi aspetti meno critici ma comunque determinanti a creare esperienze positive.

Se analizziamo l’esperienza quotidiana di un “colletto bianco” che lavora le sue sette/otto ore al giorno ne viene fuori che il design dell’ambiente incasella in posture, atteggiamenti e abitudini che non appartengono all’essere umano. E se partiamo dal vecchio concetto di comfort, notiamo come nel tempo il termine si è evoluto al punto da contraddire se stesso. L’etimo della parola, in italiano, comprende il concetto di conforto, supporto, soccorso, ma in inglese il suo significato si riferisce al concetto di agio, comodità, fino ad indentificarsi esclusivamente con le comodità materiali, con il complesso di impianti e accessori occorrenti a rendere agevole e organizzata la vita quotidiana.

Il remote control, per esempio, ci indulge a rimanere seduti più del previsto e ci consente di controllare a distanza l’apertura di una finestra o di una tenda, senza bisogno di alzarci, di impiegare le braccia, e, a volte, senza nemmeno ingaggiare il movimento rotante delle dita (come accade per certi rubinetti che rispondono ad un vago gesto della mano).

Si tratta di tanti elementi di arredo o di interfacce che più che offrire relax ci invitano alla inattività. Essi ci danno l’illusione di avere un totale controllo sullo spazio, ma in realtà è lo spazio e le sue tecnologie che controllano noi, influenzano le nostre decisioni ed il nostro comportamento, fino a trasformarci in individui sedentari, paradossalmente sempre più affaticati fisicamente e mentalmente.

Nasce la necessità ed il desiderio di seguire programmi di fitness con la speranza che un paio di sessioni alla settimana possano controbilanciare i danni procurati da una inerzia di 8 o 9 ore al giorno. Anche quando si trova il tempo di andare in palestra ci si rende conto che gli effetti inesorabili del comportamento sedentario rimangono lì e continuano a rompere gli equilibri fisici e mentali.

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Ma come proporre un profondo cambiamento senza agire drasticamente e sovraccaricare l’utente del carico emotivo e cognitivo? Come assicurare il successo di nuove e stravolgenti proposte?

Herbert Simon, il Premio Nobel per l'economia per le sue pionieristiche ricerche sul processo decisionale nelle organizzazioni economiche, ha affermato che la razionalità di un individuo durante il processo decisionale è limitata, anche se non pensiamo che lo sia. E questo non tanto per le sue limitazioni cognitive, ma dalla quantità finita di tempo di cui l’uomo dispone per prendere una decisione. Kahneman, dal suo canto, ci spiega come il pensiero veloce ed intuitivo (sistema 1) interferisce nella decisione rispetto al pensiero logico ma più lento (sistema 2), specialmente se l’ambiente riesce a creare la giusta suggestione ed emozione.

Lo spazio quindi può essere un ottimo strumento per il cambiamento comportamentale e culturale se questo è desiderato, ma per innescare un condizionamento positivo deve valorizzare il fattore umano invece di sfruttarlo, deve sfruttare modelli di intervento che non degenerino nella manipolazione, ma creino un contesto di libera scelta. Gli ambienti che riescono a mettere in pratica questa delicata architettura delle scelte, senza cadere nella trappola di interventi paternalistici e prescrittivi, hanno più probabilità di avere successo come strumenti del cambiamento

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Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)

L'inconsapevole cognizione dello spazio costruito

C’è una forza costante e indefinita che lega la psicologia all’architettura, che costringe le due discipline a inseguirsi senza però mai interfacciarsi. Eppure non c’è aspetto mentale che non abbia, oltre al riscontro fisiologico e sociale, una riferimento ed un corrispettivo in ambito architettonico o territoriale. L’influenza del contesto ambientale sulla nostra psiche non è prevalente, ma è quasi sempre determinante, perché funziona da marcatore, evidenziatore e amplificatore della situazione.

Architettura e Psicologia, due percorsi paralleli

Architettura e Psicologia, due percorsi paralleli

Prendiamo ad esempio l’ippocampo, costituito da due porzioni simmetriche di cervello situate nei due lobi temporali. Esso è notoriamente sia sede della memoria sia sede dell’apprendimento spaziale (orientamento). In origine si pensava che fosse l’olfatto la sua principale funzione, ma poi scoperto che sono anche altre le aree del cervello ad essere coinvolte. In ogni caso, anche se l'olfatto non è la funzione primaria dell'ippocampo (esso ne rimane comunque coinvolto) abbiamo qui l’evidenza anatomica del forte legame tra emozione (legata alla sensazione olfattiva e alla memoria di lungo termine), cognizione ed esperienza spaziale.

In un articolo precedente è stato già messo in evidenza come la struttura dell’ippocampo sia rappresentativa dello stretto legame tra psiche ed architettura, ed ora, a completamento ed arricchimento di questo argomento, introduciamo la teoria dell’ embodied cognition , cioè di quell’esperienza spaziale che avviene a livello corporeo. Non ci riferiamo al tatto in questo caso, piuttosto all’insieme dei nostri movimenti e posture relativi ad un contesto. L’esperienza corporea legata al movimento erroneamente separa il corpo dalla mente, laddove il movimento e la propriocezione, (cioè la consapevolezza dell’interazione del nostro sistema muscolo-scheletrico con il contesto) non sono altro che estensione della corteccia motoria, allo stesso modo con cui gli occhi ed il naso sono collegati alla corteccia visiva ed olfattiva. Certamente esiste un diverso grado di consapevolezza tra i sistemi percettivi “tradizionali “ e quelli “embodied”, nel senso che è facile che gli stimoli motori e posturali passino più inosservati rispetto a quelli recepiti dagli altri sensi. La cognizione corporea conserva quindi la caratteristica di essere inconsapevole rispetto alla conoscenza chiara che viene filtrata dai soliti cinque sensi, anche se questi ultimi, in aprticolare la vista e l’udito, non sono esonerati dalla stimolazioni più delicate e nascoste (nudging) di soluzioni architettoniche strategiche. Quando però riconsideriamo i fatti e gli scenari appena avvenuti è più facile fare mente locale su ciò che distrattamente abbiamo visto o udito piuttosto che ricordare precisamente i nostri movimenti.

Detto questo possiamo definire l’esperienza spaziale come un fenomeno complesso, cross-modale e senso-motorio, che lascia ampio spazio all’inconsapevolezza, soprattutto perché il nostro sistema agisce per schemi noti che inducono agli automatismi.

Welcome to Your World,  S. William Goldhaghen, HarperCollins, 2020.

Welcome to Your World, S. William Goldhaghen, HarperCollins, 2020.

Sarah Williams Goldhagen parla, nel suo libro (foto), di uno spettro della cognizione umana dell’ambiente circostante, che registra un andamento decrescente del livello di consapevolezza che coincide con un passaggio graduale della cognizione linguistica a quella prelinguistica. La cognizione prelinguistica è più difficile da cogliere e da esprimere. Quando eseguiamo le azioni routinarie, come quella di andare in ufficio ogni mattina, esistono tante azioni ripetute, quali il vestirsi, prendere le chiavi dalla mensola, aprire la porta e percorrere il solito vialetto, le quali impegnano il corpo e la mente senza che ne abbiamo piena consapevolezza. In realtà si tratta di sequenze di azioni e reazioni che non richiedono energia mentale ma che forgiano e condizionano, anche se molto lentamente. Sono soprattutto questi gli aspetti della cognizione spaziale che dobbiamo imparare a considerare e a soppesare al fine di creare ambienti strumentali alle nostre attività, “compassionevoli” della nostra condizione. Non esiste il design ideale per ogni contesto ambientale e sociale, ma esistono diverse possibilità di definire un’esperienza. Se riconsideriamo la sequenza di azioni mattutine prima citata e cambiamo il layout ambientale, cioè cambiamo il posto delle chiavi, il verso di apertura della porta e arrediamo con nuove piante il vialetto esterno, sicuramente rompiamo alcuni automatismi, arricchiamo l’esperienza per un po’ di tempo, fino a che non diventa nuovamente una routine. Anche in tal caso possiamo immaginare uno spettro, quello dello stimolo, che da lieve (di piacevole sorpresa) aumenta sempre più fino a registrare uno stress che da episodico diventa cronico.

Il cambio di marcia del lavoratore smart improvvisato, tema centrale di questo periodo pandemico, è proprio un esempio di come un radicale cambiamento, che non trova un suo assetto definitivo, può causare forte disagio, nonostante il cambiamento avvenga nella direzione desiderata. La completa libertà nella gestione del lavoro stravolge la matrice spazio-temporale, elimina gli schemi prefissati, gli automatismi, cioè quei gap che sfuggono alla consapevolezza ma che aiutano a far riposare il sistema mente-corpo. Il sovraccarico mentale, per quanto eccitante e intrigante all’inizio, alla lunga rende frustrati e anche inutilmente frenetici.

La riorganizzazione del rapporto lavorativo richiede l’intervento soprattutto di psicologi e sociologi ma non può prescindere anche da un approccio progettuale compassionevole. Attualmente la progettazione architettonica sta prendendo coscienza della sue lacune e esprime la volontà di superamento della stesse, ricalcando così le stesse difficoltà di percorso che hanno caratterizzato l’affermarsi della psicologia di inizio secolo scorso, quando similarmente si imparava a comprendere la complessità dei caratteri distintivi del modo di pensare e di sentire del singolo individuo.

La consapevolezza nuova della cognizione della spazio richiede il superamento di una resistenza, una forza che , per dirla con le parole di Daniel Kahneman, ci ha abituato ad ignorare la nostra ignoranza ed essere cechi alla nostra cecità.

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We can be blind to the obvious, and we are also blind to our blindness
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Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)

La percezione del valore di uno spazio architettonico

L'epoca che stiamo vivendo presenta molti paradossi spesso espressione di una distanza che costantemente si stabilisce tra il potere di giudizio e la consapevolezza della effettiva situazione da giudicare. Questo è il caso anche per l’ architettura.

La punta dell’iceberg. Spesso l’evidenza inganna.

La punta dell’iceberg. Spesso l’evidenza inganna.

Come si può giudicare la qualità di un ambiente se la percezione del suo valore è aberrata? Lo spazio architettonico suggerisce sempre pensieri e azioni e lo fa trovando spesso utenti fortemente inconsapevoli di questa influenza. Per esempio, quando ci si trova in ambienti di lavoro, siamo rapiti dalle scadenze delle nostre agende e si cercano negli spazi conferme rassicuranti e convincenti rispetto alle azioni che dobbiamo compiere. Ci serve una sala con tavolo e sedie per partecipare a un meeting con più persone, oppure ci basta isolarci da altre persone per portare a termine un compito che richiede attenzione e cura del dettaglio. Eppure di fronte a queste due diverse opportunità ci sono una miriade di soluzioni architettoniche che possono offrire diverse risposte, e magari variare il peso del compito da affrontare, ridurre lo stress, o addirittura migliorare la performance. Che si tratti di conferme ad aspettative, oppure di persuasioni a scelte diverse, lo spazio ci condiziona, ma noi raramente ce ne accorgiamo, perché siamo educati a giudicare l’architettura di interni da un punto di vista stilistico/estetico e attribuirle un valore associato più ad un brand o a una firma che alla sua reale e completa efficienza ed efficacia.

I punti di vista da cui si parte per una valutazione di un ambiente possono essere molteplici, ogni competenza può valutare bene un singolo aspetto, ma a livello cognitivo sono sempre e solo due i passaggi mentali che avvengono di fronte ad una esperienza di giudizio. Daniel Kahnemann ha portato avanti per decenni una importante ricerca psicologica proprio in questo ambito, e ha spiegato con il suo libro pubblicato nel 2011 “Thinking fast & slow” come la dicotomia di due modi opposti di pensare, denominato sistema 1 e il sistema 2 , siano alla base del processo decisionale. Il sistema 1 rappresenta la reazione inconscia, istintiva , emozionale e quindi più veloce e automatica. Il sistema 2 è invece il pensiero più lento, in quanto più consapevole, oculato, analitico e più deliberativo. Ma qual è il sistema che conduce alle scelte migliori? I due sistemi sarebbero l’uno complementare dell’altro. Quando è in gioco il nostro benessere non è sempre la razionalità la migliore consigliera , quanto piuttosto la cosiddetta scelta di pancia. Molte volte scartata al confronto con un giudizio più oculato, dominata da una cultura diffusa e molto radicata, la scelta istintiva cede il posto alle regole condivise, all’abitudine e al condizionamento. In aggiunta succede poi che le voci di dentro non vengono sentite perché usano un linguaggio non facilmente decodificabile, oppure perché i segnali che riceviamo dall’ambiente, e che dovrebbero stimolare l’istinto, sono deboli e poco chiari.

Edward Hopper. Morning Sun

Edward Hopper. Morning Sun

In questo caso l’utente è risucchiato da un condizionamento culturale che fa passare per bello, buono e giusto ciò che non è.

Il compito della neuroarchitettura, che si basa su principi scientifici relativi al funzionamento del nostro sistema corpo-mente, è proprio quello di restituire una nuova sensibilità al linguaggio progettuale e creare una nuova cultura cosciente della complessa interazione dell’uomo-utente con l’ambiente costruito. Gli oggetti inanimati e le loro composizioni trasmettono messaggi che dobbiamo sia imparare a comprendere come progettisti sia imparare ad apprezzare come consumatori finali. La qualità di uno spazio non è lusso, ma è equilibrio e armonia degli stimoli multisensoriali che vanno oltre la vista e l’udito, e per i quali il lusso può essere spesso un elemento disturbatore. Se fino a poco tempo fa il concetto di multisensorialità rivoluzionava l’approccio progettuale, ora esso si rinnova ulteriormente nella considerazione della percezione corporea, definita con il termine inglese “embodied cognition” (Cognizione Incorporata), per la quale la mente non è totalmente disincarnata dal suo supporto fisico. Ogni postura e sguardo che un interno induce imprime nella nostra mente delle sensazioni precise. Queste sensazioni sono più forti quanto più abbiamo a che fare con lo spazio peri-personale, quello che il nostro corpo raggiunge o può raggiungere nel brevissimo tempo, e si dileguano, senza però scomparire del tutto, quando consideriamo l’immersione in un territorio più vasto . Si tratta di considerare come il mondo fisico possa toccare la sfera delle emozioni, il nostro umore, e possa diventare un importante strumento di cura.

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L’obiettivo è la legittimazione di questi nuovi parametri di indagine e di progettazione attraverso sperimentazione scientifica, e si possa conferire non solo autorità a una disciplina non ancora ufficialmente riconosciuta, ma soprattutto una più diffusa consapevolezza di ciò che rende effettivamente lo spazio costruito uno spazio di valore.

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Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)

Architettura come scienza applicata

Lo scorso 29 novembre, in occasione dell’evento Gestaltart tra Arte, terapia e neuroscienze, organizzato dal Mart di Rovereto e l’associazione UrLA , ho parlato dei rapporto che lega architettura, neuroscienze e psicologia. Il contesto tematico della conferenza non poteva essere più appropriato, poiché è nella Gestalt che affondano le radici di quello che si sta definendo come neo-umanesimo, cioè del nuovo contesto culturale che sottende il paradigma del progetto. La teoria percettiva della Gestalt comprese e spiegò, a suo tempo, come l’esperienza della realtà sia frutto di una interpretazione individuale, e che l’oggettività dei fenomeni poco contano ai fini di una valutazione qualitativa dello spazio. La teoria del campo di Kurt Lewin , sempre di matrice gestaltica, estese l’attenzione dai processi percettivi a quelli sociali e di gruppo. e spiegò come anche i nostri comportamenti siano funzione degli spazi di vita oltre che delle persone che ci abitano.

Purtroppo al movimento mancò una solida evidenza scientifica che spiegasse i fenomeni percettivi e comportamentali rilevati, ma esso ha il merito di aver impostato un percorso di indagine nuovo, cioè un’area interdisciplinare applicativa che avvalorasse i risultati in ambito puramente scientifico, oltre quello di stimolare nuove indagini.

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La presa di coscienza dell’interazione uomo-ambiente e la successiva disponibilità di evidenza scientifica nel nuovo millennio ha elevato la (neuro) architettura a rango di scienza applicata. Una pratica che può ritenersi terapeutica, o meglio ancora , salutogenica, perché non cura il malessere generato dagli spazi insalubri, ma lo previene creando i presupposti di un benessere inteso in senso lato. L’evidenza scientifica di riferimento riguarda in primis le scienze cognitive, la neurofisiologia e la psicologia, ma anche discipline apparentemente distanti, quali la biologia, la genetica , la matematica, la fisica .

Wilson, biologo, ha introdotto la biofilia, e quindi l’ ipotesi biofilica che, se da una parte spiega l’origine del principio di bello, buono e giusto, dall’altra diventa un riferimento per ulteriori indagini in campo biologico ed epigenetico.

L’approccio più matematico è rappresentato dalla “sintassi spaziale” (Space Syntax), la quale è una metodologia di analisi che traduce i comportamenti sociali e individuali in grafi e matrici, ed è capace di esprimere con dati numerici gli aspetti qualitativi dello spazio, cioè di prevedere la sua capacità di attrarre o a respingere le persone a seconda degli obiettivi fissati. L’anticipazione di scenari futuri e il controllo di eventuali fenomeni perturbativi o di semplice cambiamento diventano uno strumento molto utile per assicurare il successo degli artefatti, qualunque sia la loro scala di intervento.

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Un’altra chiave di lettura di tipo numerico riguarda i frattali, cioè gli enti geometrici invarianti che, ripetendosi in scale diverse, aiutano a decodificare le forme che ci circondano e distinguono le forme semplici da quelle complesse. L’analisi dei frattali aiutano a decifrare i messaggi subliminali che le geometrie dell’ambiente trasmettono al nostro inconscio, e colgono il delicato equilibrio tra la complessità e la semplicità, cioè quella tensione che esiste tra lo stimolo fastidioso e stancante e quello noioso e piatto.

Ma la scienza del design non si ferma qui. Altre importante interazioni e contaminazioni, oltre a quelle scientifiche, supportano la teoria progettuale in un processo aperto e infinito. La scienza del design esiste, ( possiamo finalmente dare una risposta positiva alla domanda di Gropius del 1947 (1)), ma non sarà mai esatta, perché si evolve secondo una curva asintotica, la quale tende a dominare la realtà complessa e dinamica, senza però mai riuscirci completamente.

Il Krebs Cycle of Creativity rappresentato in basso riesce, meglio delle parole, ad esprimere questa forte tensione creativa che lega insieme non solo l’architettura ala scienza, ma anche all’arte e la tecnologia (ingegneria), andando oltre il rapporto a due a cui siamo già abituati. Il rapporto tra arte e design è facilmente intuibile dal momento che le due discipline si sono distinte dopo essere nate come un tutt’uno. La stessa storia di emancipazione tocca successivamente alla tecnologia, quando la rivoluzione industriale separa competenze (arte e tecnica) che una volta coincidevano. Gli ultimi decenni ci rendono familiare anche la stretta collaborazione tra arte e tecnologia, tanto che adesso, più che con quadri e sculture, l’arte trova la sua più originale espressione nelle installazioni artistiche interattive, che lasciano invariato lo scopo di analizzare, scomporre ed evidenziare gli aspetti più misteriosi del nostro vivere.

In questo rapporto complesso a quattro si viene a creare una doppia dicotomia e tensione tra ciò che vuole aderire ed esprimere la natura, ed i suoi principi eterni e fissi, e ciò che invece è un continuo evolversi della cultura e del comportamento, che costantemente ridefinisce la necessità e l’utilità dei dati acquisiti (l’artificiale). Banalmente, se questo processo funzionasse in modo perfetto e le giuste interazioni avvenissero con i giusti tempismi, il prodotto creativo sarebbe perfetto e non ci sarebbe differenza tra artificiale e naturale.

L’ingegneria converte la conoscenza in utilità, il design converte l’utilità in cultura e contesto culturale, mentre l’arte converte la cultura in comportamento e si domanda sulla nostra percezione del mondo. Quando l’arte incontra la scienza viviamo un momento magico, di grande rivelazione (Cinderella moment).”

Citazione di Neri Oxman, ex modella, designer e ricercatrice sulla materia immediata presso il MIT di Boston, nonché autrice del Krebs Cycle of Creativity..

Nota (1) . Walter Gropis, Is There a Science of Design? Auckland University College, School of Architecture, 1954

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Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)

Lo Spazio identitario, cibo per la mente

Per avere un esempio lampante e immediato di quanto lo spazio che ci circonda abbia una funzione fondamentale nel forgiare le nostre esperienze, siano esse sociali, emotive o cognitive, basta indugiare su quella sensazione di incertezza e disagio che si prova al termine di un web meeting .


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Questo tipo di esperienza riguarda ormai da vicino la stragrande maggioranza della popolazione mondiale a causa delle restrizioni legate al Coronavirus. Impiegati, docenti, studenti hanno dovuto adattarsi velocemente all’utilizzo di piattaforme che consentono la comunicazione a distanza, che siano lezioni scolastiche, riunioni di lavoro, contrattazioni commerciali. Nonostante questa tecnologia presenti notevoli vantaggi, in quanto permette a persone dislocate in punti diversi e distanti del territorio di confrontarsi attraverso la simultanea consultazione di documenti, questa ulteriore trasformazione digitale ha scatenato riflessioni critiche e analisi approfondite su quali possono essere i risvolti etici ed i rischi in ambito psicologico della nuova modalità di comunicazione.

La perplessità maggiore nasce rispetto alla tendenza di voler giudicare il lavoro a distanza come molto più efficiente rispetto al vecchio assetto organizzativo legato alla sede, al punto da rendere obsoleto l’edificio universitario, la sede di ufficio, l’aula scolastica. Questo freno all’onda innovatrice è forse dovuto a un cambiamento troppo rapido da trovare la nostra mente impreparata, un po’ come è successo con le invenzioni del secolo scorso, come il telefono ? Oppure esiste effettivamente un problema etico, sociale e psicologico più profondo che causa un senso di smarrimento, un gap mentale che va assolutamente risolto?

Esperienza lavorativa impoverita

Esperienza lavorativa impoverita

La questione in causa riguarda precisamente la decontestualizzazione ambientale che caratterizza gli incontri di gruppo, la quale è sostituita da una griglia bidimensionale (mostrata sullo schermo del proprio PC) in cui sono incasellati innumerevoli volti, affiancati in un modo che difficilmente potrebbe replicare o riferirsi una esperienza reale. Una situazione simile è quella del conferenziere, o dell’attore, che si trova di fronte una platea, ma questa non comunica a sua volta con lui, o meglio lo fa ma con linguaggio diverso e mediato da una tipologia spaziale che definisce le distanze, la gerarchia, i ruoli.

Cosa succede quindi nel nostro cervello nel momento in cui ci si ritrova, in un contesto lavorativo o scolastico, a relazionarsi con una serie di volti parlanti decontestualizzati?

La ricerca in campo neuroscientifico ci spiega come la nostra esperienza di vita, in particolare la costruzione della memoria episodica, si costruisce sempre su un contesto spaziale e temporale. L'emozione, che sempre accompagna lo stesso ricordo e insieme a tutti gli elementi connessi, rimane a sua volta anch’essa legata ad uno spazio, e condiziona tutte le successive esperienze spaziali e non, interferendo nella decodificazione delle nuove situazioni.

Se un’esperienza è sempre anche di tipo spaziale, significa che essa coinvolge, oltre che il nostro sistema visivo e uditivo o propriocettivo, anche altre aree cerebrali dedicate all’apprendimento di natura spaziale quali l’ippocampo. L’ippocampo presenta una sorta di GPS neuronale (che conta le cellule di posizione e di griglia, di contorno e direzione) che ci informano sullo spazio in cui ci troviamo e la nostra relazione con esso, ma assolve contemporaneamente anche altre funzioni. Esso è responsabile della costruzione della memoria episodica, alla sua trasformazione a memoria a lungo termine, e riveste un ruolo importante anche nell'apprendimento di natura semantica e nella costruzione delle mappe cognitive.(1)

La costruzione spaziale è quindi alla base del ragionamento astratto, della emozione, del ricordo.

Questo ci fa capire il ruolo fondamentale che ha lo spazio costruito nel definire l’identità individuale o di gruppo, che va ben oltre la basica esigenza di funzionalità e comfort. Il concetto di spazio identitario è strettamente legato all’idea di ambiente domestico, ma rimane fondamentale per costruire l’idea di gruppo ed il successo dell’attività per cui il gruppo nasce. Si capisce inoltre quanto sia delicato e responsabile il lavoro degli architetti e dei designers quando progettano scuole, uffici, città.

Göbekli Tepe,: la più antica testimonianza architettonica risale a  10000 anni  fa

Göbekli Tepe,: la più antica testimonianza architettonica risale a 10000 anni fa

La strategia più comune è quella di creare riferimenti e stimoli multisensoriali di richiamo a sensazioni remote più o meno comuni al gruppo di riferimento, ma in ogni caso è necessario che il tempo contribuisca a generare un vero e profondo senso di appartenenza.

Questo spiega come mai molti spazi costruiti, che a prima vista risultano ben riusciti dal punto di vista estetico e funzionale, possano col tempo risultare dei flop. Ce lo dicono gli atti vandalici nei nuovi quartieri non vissuti, ce lo dicono i curriculum di alcune scuole, e ce lo dicono i livelli bassi di produttività di alcuni uffici.

Purtroppo la ricerca neuroscientifica trova ancora difficile definire i fattori che rendono lo spazio identitario, ma fornisce le prove che negarlo del tutto riduce l’efficacia della comunicazione, affievolisce la forza aggregante di un gruppo e diffonde una sensazione indefinita di disagio.

C’è da dire, però, che la mancanza di riferimento spaziale nelle attuali piattaforme di comunicazione quali Zoom, Google, Team, sono il risultato di una mancata considerazione del problema, e non di una impossibilità a risolverlo, almeno in parte. Queste tecnologie sono ormai datate rispetto alle coinvolgenti ambientazioni virtuali tridimensionali. La full immersion, che molti hanno potuto provare con le piattaforme dei videogames, restituiscono esperienze molto realistiche, che se da un lato rischiano di provocare dipendenze e fenomeni di dissociazione dalla realtà, dall’altro hanno il positivo effetto di celebrare una architettura di grande qualità: biofilica, umanocentrica e rigenerante.







Charis Lengen, Thomas Kistemann, 2012. " Sense of place and place identity: Review of neuroscientific evidence”. Health & Place

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Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)

Neuroarchitettura 2.0 Edifici con l'anima

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Al principio si pensava che il connubio tra neuroscienze e architettura avrebbe portato a due percorsi molto distanti e diversi tra loro. Il primo caratterizzato da quello che effettivamente sta accadendo, e cioè l'applicazione delle conoscenze in campo cognitivo, neurofisiologico e psicologico alla progettazione, per creare ambienti (statici) che aiutano a svolgere al meglio le attività a cui lo spazio è destinato. Il secondo percorso, invece,riguarderebbe lo sviluppo di edifici intelligenti, cioè di edifici dotati di sistemi tecnologici avanzati che permettono una continua interazione con gli occupanti e un adeguamento dello spazio alle diverse esigenze rilevate. Trattasi di un’architettura dinamica, che si può definire neuromorfica o responsiva alle esigenze più svariate, che siano esse relative alla sfera emozionale, sociale o prettamente di tipo fisiccorporea. Il neologismo neuromorfico è da attribuire a Michael Arbib, neuroscienziato, ingegnere e psicologo, nonché professore alla USC (California), quando nel 2012 ha presentato un articolo scientifico che descriveva "ADA - lo spazio intelligente", un padiglione visitato da oltre 550.000 ospiti all'Esposizione nazionale svizzera del 2002. Questo edificio presentava un'infrastruttura interattiva basata (in parte) su reti neurali artificiali (ANNs), e aveva la pretesa di “provare emozioni' e di “giocare” con visitatori. Con una banale rispondenza delle luci a pavimento ai passi delle persone danzanti, la pista da ballo restituiva ritmi e frequenze del movimento, in armonia con il comportamento degli occupanti, attraverso una illuminazione psichedelica generata inconsapevolmente dagli stessi utenti. Il termine neuromorfico non si riferisce ad una replica delle azioni umane, quanto piuttosto alla loro interpretazione e reazione alle stesse. Nel suo articolo ormai datato Arbib già prende definitivamente le distanze dal vecchio concept di casa intelligente, abitata e appesantita da robots antropomorfi, che replicano le azioni umane. La nuova protagonista è una tecnologia silenziosa, discreta e leggera, che coincide perfettamente con le caratteristiche dei sensori corporei e ambientali che sono attualmente disponibili sul mercato. Stranamente però questo filone stenta ancora ad affermarsi, nonostante le tecnologie disponibili possano contare sul connubio con discipline neuroscientifiche come scienze cognitive, machine learning e intelligenza artificiale che sono all'altezza delle aspettative.

In realtà timide espressioni di edifici responsivi, cioè animati al punto di modificarsi e adattarsi alle diverse esigenze mutanti degli occupanti in tempo reale, già esistono. Si pensi alla domotica, che è capace di interpretare alcuni segnali ambientali per modificare le aperture delle finestre e dei tendaggi. Si pensi quindi anche ai sistemi di sicurezza, che attraverso database aggiornati a distanza possono riprogrammare il funzionamento dei sistemi di allarme o degli elettrodomestici in assenza degli occupanti. Si tratta di applicazioni che migliorano il comfort dell’ambiente, ne semplificano la gestione, restituendo una qualità di vita migliore dal punto di vista gestionale, ma non necessariamente garantiscono un benessere in senso lato. In poche parole possiamo asserire che gli edifici altamente automatizzati possano dimostrare di avere un cervello, ma non certamente un’ anima.

Ma cosa intendiamo per anima quando si sta parlando di edifici? Si intende forse la loro capacità di interpretare ed interagire con i bisogni non solo materiali delle persone, ma anche cognitivi, sociali e spirituali?

Le neuroscienze ormai permettono di interpretare e tradurre in numeri anche i nostri stati psico-fisici e quindi, perché non pensare di creare dei sistemi spaziali che oltre ad essere a misura d’uomo in termini di affordance e usablità siano garanti di benessere a 365 gradi ?

Lo scoppio della pandemia causata dal covid-19 ha bruscamente interrotto alcune speculazioni sulle possibili applicazioni delle tecnologie e delle neuroscienze all'architettura, e sta definitivamente spostando il focus della ricerca su problematiche legate alla sicurezza sanitaria. Il contenimento del contagio (informazione e controllo sul traffico degli occupanti in tempo reale) e la riduzione della percezione del rischio (garanzia di un diffuso senso di sicurezza), rappresentano le urgenze più immediate. Ma si prevede, che una volta superata la crisi, l'obiettivo principale della politica diventi quello di assicurare uno sviluppo territoriale che garantisca a tutti uno stile di vita sano, capace più di prevenire la cura anziché applicarla.

BIM MAN. alto 170 m, di Ove Arup: Antropomorfismo apparente

BIM MAN. alto 170 m, di Ove Arup: Antropomorfismo apparente

Questa nuova nuova esigenza sembra attivare un processo evolutivo in ambito progettuale che si impone con una forza ben maggiore delle precedenti tendenze di mercato e stilistiche. La coincidenza che questa spinta nasca proprio in concomitanza con l’onda derivante dalla disponibilità di un rinnovato sapere scientifico e tecnologico determina, in modo “endogeno” una rivoluzione progettuale che andrà sempre più nella direzione di un’ architettura “neuro”. Questa si imporrà in modo sempre più naturale, convincente e democratico, in quanto si rende garante di maggiore salubrità.

La complessità del linguaggio, alla fine, è solo apparente.

La disponibilità di nuovi dati da parte delle neuroscienze, capace di trasformare reazioni fisiologiche e anche modelli comportamentali in numeri, consentirebbe la programmazione di intelligenze artificiali che, nell'interpretare gli stessi dati, restituirebbe agli spazi da vivere quel cervello “emotivo” di cui avrebbero bisogno per diventare completamente responsivi.

Codificare e decodificare

Codificare e decodificare

I due percorsi a cui abbiamo fatto riferimento a capo dell’articolo, cioè quello statico, (legato alla biofilia e alla psicologia ambientale, che è già realtà - per quanto ancora di nicchia), e quello dinamico, (dell’architettura neuromorfica, percepito ancora come utopico e avveniristico), potrebbero adesso fondersi per creare un unico approccio, un paradigma progettuale che può risolvere l’antica dicotomia che contrappone l’estetica alla funzionalità degli spazi architettonici. Se la biofilia ci insegna che la bellezza trova la sua ragione nel giusto equilibrio degli stimoli sensoriali, il supporto di una tecnologia discreta consente di rispondere in modo dinamico e adeguato ai diversi stimoli.

Non sappiamo se il progetto ambizioso di realizzare un edifico responsivo nel suo complesso, come quello anticipato da Arbib, possa essere un risultato immediato, ma di sicuro sarà innescato  un processo che, partendo dal basso, e rispondendo a esigenze e a committenze diverse, integrerà sub-sistemi sensibili,  reattivi ma  indipendenti. Chissà se poi il tempo darà il suo contributo per consentire il dialogo tra le distinte competenze e i diversi linguaggi, e restituire all’edificio una intelligenza compassionevole ed empatica  che si prende cura dei suoi residenti.  

 Sarà poi azzardato chiamarla anima?  









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Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)

Strategie "evidence-based" per soluzioni spaziali alternative

I progettisti hanno da decenni capito l'importanza del dato scientifico per dare una validità oggettiva e non arbitraria allo spazio costruito. Abbiamo già parlato di come le neuroscienze abbiano dato, e continuino a dare, un forte contributo al filone dell’evidence-based design.

In questo momento però si sente il bisogno di un ulteriore supporto di dati attendibili, perché l’avvento della recente pandemia rende centrale il concetto di benessere legato alla salute fisica e alla sopravvivenza.

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La Space Syntax è disciplina che nasce come strumento di progettazione in scala urbana, per prevedere e valutare le complesse relazioni tra la società e il tessuto del territorio, e che ultimamente sta dimostrando di essere uno strumento affidabile anche nel campo della progettazione architettonica e degli interni.

Questa nuova disciplina eredita i temi della ricerca di Kevin Lynch appartenenti al secolo scorso, facendosi interprete di quella già dimostrata sua diffidenza nei riguardi di “una astrazione intellettuale della cultura umanistica”, e della “limitazione all’ambito interpretativo o descrittivo e l’incapacità di tradursi in reali suggerimenti di lavoro” (1).
Lynch, infatti, aveva già intuito che l’assetto formale della città è sì un fenomeno estetico, ma soprattutto il risultato di un fenomeno umano e naturale che si riconduce alla sua esperienza percettiva. Ed è proprio sull’analisi sull’esperienza visiva, legata alle connessioni e alle percorrenze dello spazio stesso, che si imposta questa nuova tecnica analitica.

La Space Syntax nasce come approccio di mera lettura dello spazio capace di semplificare la complessità, di discretizzare il caos fenomenologico, e di tradurre in numeri, codici, grafici quelle che sembrerebbero caratteristiche qualitative e descrittive. La disponibilità di dati piuttosto che di valutazioni descrittive e soggettive, è molto rassicurante dal momento che c’è molta esigenza di affidabilità nelle previsioni, nelle valutazioni e decisioni da prendere.

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Per comprendere l’importanza dell’approccio sintattico dello spazio bisogna partire dal postulato che le configurazioni spaziali di un edificio contengono molte più informazioni di quello che siamo abituati a scorgere, e che fattori quali partizioni, corridoi, accessi da un compartimento ad un altro definiscono non solo configurazioni planimetriche e distributive, ma stabiliscono delle relazioni di vantaggio o di svantaggio tra utenza e spazio e rispetto ad un determinato obiettivo. Se l’obiettivo cambia è possibile che vantaggi si trasformino in svantaggi, e viceversa. Cio’ che rimane uguale è il dato che quantifica, che descrive le relazioni e le gerarchie, e che lascia al progettista la scelta di virare verso un tipo di interpretazione o l’altro.

Kerstin Sailer, un’architetta-sociologa ricercatrice alla Bartlett School of Architecture di Londra, che si interessa dei comportamenti umani negli edifici, sottolinea che questo approccio numerico non è parte di una scienza esatta ma è una metodologia che può essere di grande supporto alla progettazione tradizionale, senza sostituirla integralmente.

L’elemento base dell’approccio è l’isovist, un poligono bidimensionale (potrebbe anche essere tridimensionale) la cui area, ottenuta dalle proiezioni di un punto scelto in determinate direzioni, esprime le caratteristiche del punto scelto rispetto alla visibilità, al controllo, alla connettività con il contorno, sia in forma attiva che passiva. I numeri legati alle caratteristiche di questi grafici esprimono tendenze che acquisiscono accezioni negative o positive dipendentemente dagli obiettivi e dalle finalità dell’analisi.

Questo approccio si basa sulla consapevolezza che lo spazio costruito è complesso e profondamente dinamico, e non perché è trasformabile strutturalmente, ma perché cambiano le percezioni rispetto ad una stessa situazione, oppure perché si trasformano i valori di riferimento e le priorità.

Da https://www.slideshare.net/kerstinsailer

Da https://www.slideshare.net/kerstinsailer

La figura adiacente è tratta da una ricerca del 2012 su un edificio destinato al lavoro di ricerca, ed evidenzia come l’inserimento di un attrattore, cioè un distributore del caffè, in un’area emarginata del piano (punto C), sia capace di trasformare i pattern di movimento, e rivitalizzare accessi a stanze altrimenti nascoste. Questo prova che gli occupanti di un edificio seguono un criterio di traffico non solo legato alle funzioni programmate, ma anche alle opportunità indotte da interventi postumi.

Attrattori o repulsori, aperture o barriere, divisioni di flussi o convergenze, sono alcuni criteri di codifica che aiutano a controllare la complessità. Stiamo parlando di un’analisi della struttura spaziale che può analizzare fattori eterogenei a monte di micro dinamiche, e mettere in relazione i drivers psicologici e comportamentali derivanti dall’environmental psychology con gli aspetti più funzionali e tipici dello Space Syntax.

A tale riguardo un esempio importante è lo studio pubblicato nei Proceedings del Space Syntax Symposium nel 2017, che riguarda l’analisi e il confronto tra più layout di coffe bar. In questo studio si incrocia la teoria psicologica del Prospetto-Rifugio - accreditata anche dal design biofilico - con l’attrattore spaziale rappresentato da una bella vista e la preferenza del tipo di seduta .

Si è notato come, in alcune specifiche situazioni, la scelta della posizione che offre maggiore controllo unitamente a una maggiore privacy, risulti prioritaria rispetto alla maggiore piacevolezza del luogo e/o alla comodità del tipo di seduta.

Naturalmente ogni tipologia di edificio definisce le priorità e gli obiettivi dell’analisi e degli interventi.

Per gli ospedali la chiave di lettura fondamentale è il controllo dei flussi per ridurre le probabilità di contagio, e quindi separare i tragitti tra diversi membri dello staff e consentire, simultaneamente, la comunicabilità a distanza e in tempi veloci. Nei tribunali, invece, la vicinanza fisica non è poi tanto un punto critico quanto la possibilità che le fazioni opposte abbiano di comunicare o solo di incrociare gli sguardi.

In questa nuova realtà post-pandemica, che impone anche nei luoghi di lavoro regole progettuali antitetiche a quelle precedenti, quali il distanziamento e le nuove misure di sicurezza, tecniche analitiche basate sui dati, capaci di rivalutare il potenziale sociale e comunicativo di uno spazio e di promuovere un rinnovato senso di fiducia, sono di grande aiuto. I numeri, si sa, sono dati rassicuranti di supporto nelle previsioni e per le decisioni da prendere, quindi disporre di un approccio scientifico, che ci aiuta a anticipare i movimenti, le aspettative ed i comportamenti degli utenti in modo non meramente descrittivo, è di sicuro un grande vantaggio.

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I luoghi lavorativi ora più che mai sono principalmente opportunità di collaborazione e confronto, soprattutto in vista di un coordinamento con il lavoro svolto da casa. L’approccio sintattico progettuale potrebbe essere di grande aiuto per non lasciare che nuovi requisiti per la sicurezza ci riportino indietro al concept rigido della compartimentazione.

Nota1. Tratto dall'introduzione di Gian Carlo GUarda in "L'immagine della città" di Kevin Lynch.






Può lo spazio accordarsi meglio ai nostri ritmi biologici?

Lo spazio costruito non è contenitore passivo delle nostre azioni ma è un elemento importante che plasma le nostre esperienze di vita, piccole o grandi che siano. Il connubio tra scienze e architettura è espressione di questa acquisita consapevolezza, e la ricerca applicata, dapprima concentrata su fattori ambientali più semplici, quali geometrie, luci, tessiture, si è poi anche rivolta ai sistemi più complessi, come i layout di arredo e la distribuzione degli spazi, per considerare gli aspetti relazionali e sociali oltre a quelli individuali. Esiste, però, un ulteriore aspetto che la progettazione architettonica ha ancora da mettere a fuoco, e cioè la dinamicità e la ciclicità che caratterizza la quotidianità dell’essere umano, espressione di una evoluzione millenaria nel sistema-natura e rispetto al quale lo spazio costruito deve fungere da interfaccia.

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Il design biofilico è stato il primo settore a capire l’importanza che ha per l’uomo mantenere una continua connessione con gli eventi naturali, oltre che con i suoi elementi, insistendo sulla consapevolezza di essere parte integrante di un sistema armonico, ciclico, ma anche in continua evoluzione.

L’organismo umano ha integrato dentro di sé un sistema di orologi interni estremamente complesso, che segna e influenza il ritmo delle sue principali attività giornaliere. E’ anche vero il contrario, cioè che sono i segnali ambientali esterni, tra cui l’avvicendarsi del giorno e della notte, ad aiutare l’uomo a resettare questo orologio, assicurando il suo buon funzionamento.

Il ritmo circadiano, che è riconosciuto essere l’orologio principale, è un processo endemico che controlla non solo l’alternarsi del ciclo sonno/veglia, ma anche altri “orologi periferici”, cioè quelli relativi a organi e apparati meno evidenti ma altrettanto importanti. Pensiamo alle ghiandole deputate al rilascio degli ormoni, all’apparato digerente, oppure al sistema nervoso che regola le onde cerebrali, tutti sistemi responsabili dei cambi di umore e degli stati mentali.

Questi cicli non seguono tutti lo stesso periodo di 24 ore (si parla infatti di ritmi ultradiani e ritmi infradiani) ma si tratta sempre di fenomeni pulsanti, che seguono un andamento sinusoidale e mai costante .

Possiamo quindi asserire che il ritmo è un elemento fondamentale della nostra vita ? E che gli equilibri di uno stile di vita salubre sono spesso inficiati da soluzioni architettoniche statiche, ferme e indifferenti a quelle che sono le nostre diverse predisposizioni fisiologiche?

Come funzioniamo al meglio durante la giornata

Come funzioniamo al meglio durante la giornata

Il ritmo circadiano è un fenomeno che può funzionare a prescindere dai fattori esterni, seguendo il “free running”, ma questo sfasamento può causare, nel breve termine, stanchezza e irritabilità, e con il tempo e la ripetitività dell’errore, porta inesorabilmente alla formazione di malattie croniche gravi.

La cosiddetta luce blu del mattino (luce melanopica) che ci sveglia inibendo la produzione di melatonina, attiva indirettamente il rilascio di una serie di ormoni quali il cortisolo, la serotonina, la dopamina, il testosterone, ciascuna seguendo un andamento sinusoidale con tempi e durate diversi.

Certamente anche l’alimentazione ed il movimento sono elementi esterni responsabili della regolazione dell’orologio biologico, ma la luce rimane il principale stimolo.

Il cortisolo, con un andamento sinusoidale sfasato rispetto alla melatonina, ci predispone ad uno stato di allerta e a ottime capacità cognitive nel tardo mattino. Il pomeriggio, di contro, ci concede, per l’aumento di temperatura, un miglioramento delle capacità reattive e di coordinamento. La forza muscolare raggiunge il massimo livello poiché aumenta la velocità di propagazione degli stimoli nervosi e del metabolismo, facilitando la produzione di energia e migliorando la prestazione fisica. Succede poi che nella tarda serata la temperatura corporea incomincia a calare, e anche la diminuzione della luce naturale aiuta nel rilascio di melatonina e ci prepara al sonno.

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Detto questo sembra piuttosto logico dedurre che la nostra giornata, lavorativa o di studio, dovrebbe essere scandita da attività e da spazi che tengano presente le nostre dinamiche predisposizioni mentali e fisiche.

Alcuni recenti documenti istituzionali emanati con il patrocinio dell’OMS, quale il Piano d’Azione Globale, promuovono una maggiore consapevolezza per stili di vita più salubri, e abbozzano linee guida per l’innovazione delle organizzazioni lavorative, sia nell’ambito degli uffici destinati ai cosiddetti “colletti bianchi” che degli ambienti destinati al lavoro manovale. Sono esplicitamente condannate abitudini errate legate a politiche gestionali non attente alle esigenze psico-fisiche di base.

A Manifesto to End Boring Meetings, dal Wall STreet Journal

A Manifesto to End Boring Meetings, dal Wall STreet Journal

L’organizzazione degli spazi di ufficio, oltre a quelli scolastici che già sono sensibilizzati al problema, non dovrebbero ignorare questo principio. Immaginiamo che aree ben illuminate dalla luce mattutina siano destinate a sale per meeting, o per pause-pranzo. Tale scelta precluderebbe la localizzazione di postazioni singole di godere appieno dell’effetto stimolante e allertante della luce naturale del mattino, abilità non particolarmente richiesta in situazioni di convivio o di confronto.    

L’industria illuminotecnica è il settore che maggiormente ha recepito l’importanza dell’aspetto dinamico nella progettazione. Essa non solo riconosce l’importanza della luce naturale, ma supporta la ricerca applicata per la realizzazione di sorgenti luminose circadiane, capaci di gestire la qualità della luce non solo per l’attenzione ai nuovi parametri, quali la distribuzione spettrale, ma anche per gli aspetti biodinamici, che restituiscono toni ed intensità diverse a seconda del momento della giornata.

La cronobiologia, da parte sua, ha da tempo accettato la sfida per capire meglio il funzionamento dei diversi processi vitali e le implicazioni cliniche di questi meccanismi, tanto da lasciare che si facesse avanti il nuovo concetto di   cronoterapia, secondo la quale la somministrazione di farmaci a orari ben definiti possono aumentare l'efficacia, diminuendo le dosi e di conseguenza gli effetti collaterali.

In un‘ottica di prevenzione piuttosto che di cura perché, allora, non pensare ad una organizzazione, sia spaziale che temporale, che tenga conto degli andamenti variabili e ciclici del nostro organismo e del sistema che ci accoglie?

Il risultato potrebbe essere ottimo se si pensa che non solo verrebbero eliminati i fattori stressanti, specialmente legati agli spazi lavorativi e scolastici, ma verrebbe migliorata l’efficacia lavorativa grazie ad una maggiore efficienza fisica e mentale.











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Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)