La nuova sfida del design, la solitudine collettiva
/La ripetitività della vita quotidiana comporta la formazione di modelli spaziali ricorrenti che regolano l'interazione tra gli individui. Si creano consuetudini che collocano le persone in schemi predefiniti e con esigenze che passano per esplicite, ma in realtà non lo sono. Ed è per questo che spesso si decreta l’insuccesso di nuovi spazi, anche se il progetto a monte risponde ad un brief apparentemente completo ed efficace .
Per spiegare meglio quanto detto prendiamo come riferimento i progetti dei parchi urbani, che nascono per dare decoro e diletto alla vita urbana delle città di piccole, medie e grandi dimensioni. Gl inserimenti di vaste aree verdi all’interno delle griglie di cemento, quando mostrano generosità in termini quantitativi di dimensione e portata dell’intervento, vengono dapprima visti e giudicati positivamente, percepiti dalla comunità come una sorta di benefit ricevuto dell’amministrazione che lo propone. Succede poi che questi non siano vissuti pienamente, e a lungo termine riportano uno scarso successo, perché al di là dell’essere percepiti come piacevoli macchie di vegetazione, che risvegliano il nostro senso di affiliazione alla natura, non fanno il vero lavoro di rispondere alle aspettative di uso della comunità che ci vive.
Dietro questa disattenzione allo studio dell’esperienza d’uso spesso si cela un altro potenziale problema, quello di non considerare i diversi profili di utenza, o ancora meglio, di non soffermarci su quale siano le reali (anche se inconsapevoli) aspettative e le reazioni diverse delle persone. Il design degli spazi fisici che segnano in modo indelebile le fasi della nostra vita è quasi sempre concepito per un ideale estroverso, costruito sul presupposto che, quando costringiamo le persone a stare insieme, queste si sentano più felici ed attratte da quel luogo.
Quando si progetta lo spazio pubblico si tende a pensare che esso debba essere condiviso, che debba rispondere ad una necessità di socializzazione laddove, nella realtà dei fatti, è facile notare tra la folla molti adulti aggrapparsi ai telefoni o alle cuffie, tendere al ritiro verso un mondo più sicuro e gestibile. Gli urbanisti e gli architetti stanno finalmente verificano sul campo quello che viene definito il paradosso della solitudine: gli spazi pubblici progettati per aumentare le opportunità di interazione sociale possono avere la conseguenza involontaria di far sentire emarginate le persone isolate, mentre gli spazi che supportano esperienze solitarie in mezzo alla folla possono incoraggiare un sentimento di appartenenza.
Se questo paradosso suscita stupore e incredibilità è solo perché si è ancora ancorati alla convinzione che l’estroverso rappresenti il profilo vincente, che caratterizzi il leader, l’amico di successo, la norma di riferimento che accomuna la maggior parte delle persone, e che fa passare l’idea che gli introversi siano molti di meno. In realtà molti sono coloro che non sentono di appartenere né all’una né all’altra categoria. Si tratta degli ambiversi, che diversamente dagli introversi, che apertamente dichiarano il loro disagio, pagano un costo energetico (emozionale) ad indossare la maschera dell’estroverso ed allinearsi alle “convenzioni culturali”. La solitudine si porta ancora il carico di una brutta reputazione, mentre sono in molti a bramarla, perfino gli estroversi. Pertanto l’idea di solitudine assume una veste più gioiosa, che si dissocia da quella idea di isolamento che l’OMS considera una minaccia alla salute.
E’ vero che l’uomo è un animale sociale ma è anche vero che oggi più che mai è consapevolmente alla ricerca di un isolamento pacifico che, paradossalmente, rende gli spazi che lo promuovono più “appaganti” rispetto a quelli “attraenti” , che fino a ieri sembravano destinati a sicuro successo, perché più allegri e stimolanti. Naturalmente esistono ancora contesti in cui la necessità di interazione è fortemente sentita e voluta, ma in modo molto meno diffuso. Al suo posto si è sviluppato un nuovo modo di stare con gli altri, cioè senza interazione attiva, ma con la condivisione ed accettazione reciproca del proprio desiderio di isolamento.
Esistono studi sull’attenzione che ci parlano della soft fascination, tipica degli ambienti immersi nella natura, che può caratterizzare anche gli spazi costruiti progettati per la solitudine “collettiva e consapevole”. La fascinazione più moderata di questi ultimi fa raggiungere livelli di piacevolezza discreti, certamente inferiori a quelli creati per l’ interazione con stimoli forti (hard fascination) tipica di una sale di intrattenimento, ma non per questo meno appaganti. Anzi è comprovato che queste ambientazioni caratterizzate dalla soft fascination registrano un alto punteggio rispetto alla sensazione di ricarica e di rigenerazione mentale. (ART). D’altra parte si sa bene che il potere rigenerativo di uno stimolo non è proporzionale al livello di fascino dello stesso, ma è molto probabile che in molti casi sia questa l’atmosfera apprezzata, se non addirittura richiesta.
Ne deriva, da quanto finora osservato,che il design degli spazi dedicati ad una ”gioiosa solitudine” richiedano una enorme sforzo compositivo, in cui la sfida è di aumentare l’attrattività ricorrendo a segni e stimoli diversi da quelli hard, che sollecitino il mondo interiore piuttosto che quello esteriore. Gli spazi contemplativi diventano quindi il riferimento tipologico nella progettazione degli spazi della nuova routine. La loro qualità architettonica è sia risultato di combinazioni sensoriali che possono venire fuori in modo casuale o come risultato di uno studio mirato. Gli aeroporti sono stati i primi luoghi a sperimentare questo nuovo approccio.
Per esempio esiste un’area dell’aeroporto De Gaulle di Parigi che , secondo me, ricade nella prima categoria. Esso propone una fila di comode chaise lounge poste una di fianco all’altra che si rivolgono tutte ad una enorme vetrata modulare, la quale , a sua volta, si affaccia sul parcheggio degli aerei. Una decina di anni fa ho fatto esperienza diretta dello spazio capitandoci per caso, senza rispondere ad un segnale di invito. Ho trovato la comodità delle sedute unite all’insolito spettacolo delle giganti manovre dei velivoli una combinazione veramente affascinante e rilassante, l’assetto giusto per una solitudine collettiva di cui si ha bisogno durante le pause nei lunghi viaggi oltreoceanici. (foto in basso)
Un grande risultato, invece voluto e studiato a tavolino, è il Monologue Art Museum in Cina, progettato dallo studio Wutopia Lab (immagini sotto), inaugurato nel 2022 , il quale esplora la soft fascination con atmosfere vibranti che si avvicinano più a quelle dei luoghi di culto che a quelli espositivi tradizionali. Esiste qui un invito alla condivisione di uno stesso stato di animo tra i visitatori nonostante i momenti di maggiore affluenza e affollamento.
Un po’ più datata invece, e anche per questo lodevole, la soluzione adottata da EMBT-RMJM negli ufficio MP dello Scottish Parliament di Edimburgo inaugurata nel 2004. La versione riveduta del bow window sulla parete esterna dello spazio di lavoro individuale, crea una seduta per una pausa lavorativa nello stesso volume. Un sottospazio, quindi, che riesce a disconnettersi da quello principale, proiettandosi completamente verso l’esterno ( interno ed esterno nelle immagini in basso).